Impresa e commercio sono ancora la spina dorsale della economia? di Tony Ardito

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tony_ardito_foto_2Lo studio relativo al 2015 effettuato da Confesercenti regionale evidenzia cifre a dir poco allarmanti, dalle quali si evince chiaramente lo stato di crisi del comparto. Con riferimento specifico alla Campania, in 365 giorni (da dicembre 2014 allo stesso mese del 2015), 6106 imprese hanno cessato la propria attività (del commercio al dettaglio), a fronte di 3756 nuove iscrizioni.

Una percentuale preoccupante, perché per ogni nuova attività nata, ne son cessate due. Napoli detiene il primato negativo di cessazione delle imprese (3090, il 50% dell’intera regione) e Caserta la percentuale in proporzione più alta (-1.6% di chiusura di imprese al commercio al dettaglio rispetto al 2014).

Il 60% di tasse; costi di gestione e lavoratori con il 40% del fatturato; ulteriori aumenti di luce, gas e acqua, previsti nel corso del 2016, fanno emettere all’intero settore un grido di dolore e lanciare un SOS al governo.

La ricerca mette altresì in luce ulteriori elementi: in generale in Campania hanno chiuso circa il 15% di imprese del commercio al dettaglio di tutta Italia e il 25% di Sud e Isole. Nel contempo, nella nostra regione c’è stato solo il 17% di iscrizioni di nuove attività. Con riferimenti alle categorie commerciali, calano quasi tutte, tranne la ristorazione (+3,1% a Napoli, 2,8% in Campania), edicole e giornali (+15,7% a Napoli, +9.2% in Campania) e soprattutto il commercio via internet, che registra una impennata di iscrizioni di imprese (+21.6% rispetto a dicembre 2014) con boom a Napoli (+28.2%).

Solo pochi anni fa il commercio rappresentava per l’intero Paese un elemento di forza, un riferimento centrale per la economia ed il sociale. Anche a Salerno, in poco tempo, hanno abbassato definitivamente la saracinesca in molti, finanche negozi prestigiosi e storici. Sulle strade principali del centro come della periferia è un continuo work in progress di esercizi che cambiano volto, insegna, gerenza, asfissiati da costi di gestione, oggi divenuti davvero insostenibili. Prendono piede le “catene” cosiddette, o spuntano dal nulla attività e società di cui si ignora ogni cosa, le quali con straordinaria facilità si insediano e d’incanto, scompaiono.

Sarebbe pleonastico ribadire le 1001 ricadute negative di tali fenomenologie; d’altronde se non si attivano idee e strumenti che pian piano riportino a normalizzare i consumi sarà una eutanasia destinata a mietere ulteriori vittime e, credo di non esagerare nel dire, a ridurre persino i ritmi di vita delle città.

Francamente, non penso che il problema sia da ricercare, fra l’altro, nel presunto successo dei centri commerciali e nella volontà dei comuni di favorirne l’insediamento in questa o quella area, o nei limitati mezzi a disposizione degli enti e delle associazioni di categoria, purtroppo in difficoltà. Bisognerebbe innanzitutto restituire al cittadino quell’essenziale margine di benessere che gli conferisca, con un pizzico di ritrovata fiducia, un minimo di capacità di spesa. Poi, andare incontro alle esigenze prioritarie del settore, possibilmente evitando panacee o interventi spot, ma attivando sistemi fiscali e contributivi più congrui e meno asfissianti e favorendo nuove ed agevoli forme di accesso al credito, che allo stato gli esercenti – e non solo – considerano estremamente complicate ed onerose e le quali talvolta contribuiscono, pur senza colpa alcuna, a determinare scelte alternative assolutamente pericolose e sbagliate.

 

editoriale a cura di Tony ardito, giornalista

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