Ictus, il 73% sottovaluta i primi sintomi. Ecco quali sono

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selfie_in_sala_operatoria_a_salernoIl 73% degli americani under 45 non sa riconoscere i sintomi di un ictus e di conseguenza non si recherebbe al Pronto soccorso al bisogno.

E’ il risultato di uno studio condotto dal Ronald Reagan Ucla Medical Center di Los Angeles. Per gli esperti esiste un periodo di tempo di 3 ore a partire dal primo segnale di ictus, chiamato ‘finestra d’oro’. In questo intervallo è fondamentale che i pazienti raggiungano un ospedale e siano sottoposti a trattamenti in grado di ripristinare il flusso di sangue al cervello e di ridurre al minimo o invertire i danni. L’indagine americana, tuttavia, dimostra che gli under 45 possono sottovalutare i sintomi di ictus e la maggior parte di loro afferma che probabilmente non si recherebbe subito in ospedale.

“Un trattamento tempestivo per l’ ictus è probabilmente più importante che per quasi qualsiasi altro problema medico – spiegaDavid Liebeskind, professore di neurologia e tra gli autori dello studio – C’è una finestra molto limitata per iniziare la cura perché il cervello è molto sensibile alla mancanza di flusso sanguigno e più i pazienti attendono, più devastanti saranno le conseguenze”.

I ricercatori hanno chiesto a più di mille persone in tutto il Paese cosa sarebbero propensi a fare entro le prime 3 ore dalla sperimentazione di debolezza, intorpidimento, difficoltà a parlare o a vedere, tutti sintomi comuni in un ictus. Solo uno su tre degli under 45 ha detto che sarebbe probabilmente andato in ospedale. Il 73% ha sostenuto invece che avrebbe aspettato per vedere se i sintomi fossero migliorati.

“Questo è un problema reale – sottolinea Liebeskind – Abbiamo bisogno di educare i giovani sui sintomi di ictus e convincerli dell’urgenza della situazione, perché i numeri sono in aumento”. Infatti, dalla metà del 1990, il numero di persone tra i 18-45 dimesse dagli ospedali degli Stati Uniti dopo aver subito un ictus è aumentato del 53%. Si stima che negli Usa ci sia un ictus ogni 40 secondi, per un totale di quasi 800 mila nuovi pazienti ogni anno.

Nel 2007, Jennifer Reilly è stata una di loro. “Mi sono svegliato nel cuore della notte con un mal di testa lancinante – spiega l’interessata – Avevo 27 anni, ero abbastanza attiva, sana e non soggetta a emicrania. Ho pensato che fosse una cosa
strana”.

Il giorno dopo Reilly ha condiviso la sua storia con un collega che ha insistito perché andasse immediatamente in ospedale. La ragazza si è recata al centro medico Ronald Reagan, dove Liebeskind l’ha informata che aveva avuto un ictus.

“Ero molto scettica – ammette Reilly – Non avevo avuto nessuno di quelli che pensavo fossero i classici sintomi di un ictus, né corrispondevo alla classica descrizione di un paziente. Avevo 27 anni ed ero in buona salute”. Reilly ha poi ricordato che alcune settimane prima del mal di testa, aveva anche avuto un intorpidimento occasionale: “Metà della mia mano sinistra era diventata improvvisamente insensibile, ma ancora una volta ho continuato come se nulla fosse”.

I test hanno dimostrato che l’ ictus di Reilly è stato provocato da una patologia rara chiamata malattia di Moyamoya, che restringe lentamente alcuni vasi sanguigni nel cervello. Circa l’85% dei pazienti soffre dei cosiddetti ictus ischemici, in cui le arterie del cervello iniziano a bloccarsi.
Questi attacchi possono succedere a qualunque età e sono spesso associati con pressione alta, diabete, fumo e l’obesità.

“La buona notizia è che ci sono degli step da fare per ridurre il rischio”, ricorda Liebeskind. Una dieta sana ed esercizio fisico regolare, così come non fumare e limitare il consumo di alcol sono tra le buone pratiche per ridurre il rischio di ictus. Altrettanto importante è però saper riconoscere i sintomi. I medici suggeriscono l’acronimo Fast (face, arm, speech, time): in presenza di bocca storta, debolezza delle braccia, difficoltà a parlare è tempo di chiamare il 118. “Che ci crediate o no, ci si deve rivolgere al medico in poco tempo – continua Liebeskind – Semplicemente, non si può aspettare. E’ un messaggio che dobbiamo far arrivare ai giovani in modo più efficace”, conclude l’esperto.

Fonte Il Giornale.it

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