I centomila e passa italiani che lasciano l’Italia ogni anno hanno le valigie con le rotelle, aggeggi elettronici, qualche libro, vestono jeans felpe sneakers d’ordinanza, conoscono o almeno parlottano l’inglese. Sono giovani informaticamente updated, mediamente acculturati, a volte persino masterizzati. Nel gruppo stanno anche i prossimi maitres à penser: i cuochi che diverranno chefs. A loro spetta il destino di preparare il cibo in un locale sedicente italiano gestito da pakistani e, un giorno, di mettersi in proprio e discettare sul mondo in uno spettacolo televisivo dedicato al gusto.
Lo squadrone di giovani in cerca di fortuna fuori Italia si ingrossa da anni, complici la crisi finanziaria e la sfiducia nel sistema di casa. Il sentimento di sfiducia è insidioso: significa che sei disposto ad accettare fuori le condizioni non necessariamente migliori di quelle domestiche solo perché il paese di accoglienza ti ispira iducia. La fiducia che ti valuta per i meriti e non per gli agganci familiari e politici e di cordata. La fiducia che il fisco, una volta soddisfatto, non ti perseguita oltre misura. La fiducia che i servizi pubblici funzionano a dovere.
Ci stanno prove banali. Nella maggiore parte delle città europee le fermate dei bus sono segnate dalla paletta con l’orario della prossima corsa. E puoi scommettere che il bus arriverà all’ora indicata. Nelle città italiane dalla capitale in giù, l’autobus è un moto dello spirito, è la speranza nel miracolo. Stai alla fermata di Via Cassia come a Fatima: in attesa dell’apparizione.
I centomila che escono non rientreranno facilmente. Periodicamente qualche governante lancia il programma per il rientro dei cervelli. Puntualmente il programma produce modesti risultati. Gli incentivi scarseggiano e soprattutto manca la fiducia. Gli atenei continuano a reclutare i parenti dei parenti e gli amici degli amici e tengono in attesa migliaia di ricercatori perché non ci stanno le risorse per chiamarli in cattedra. Ed allora qualsiasi buono proposito si scontra con l’immutabilità del quadro nostrano.
Le sliding doors ammettono gli stranieri per occupare i posti che gli italiani disdegnano. A girare per ristoranti e fattorie l’osservazione è comune: se non ci fossero il pizzaiolo egiziano o l’allevatore indiano o il trattorista albanese, chiuderemmo bottega. Per contro le nostre Università accolgono un numero modesto di giovani provenienti dai paesi sviluppati o in via di rapido sviluppo.
Abituiamoci al fatto che la filiera corta dei prodotti agricoli è possibile solo grazie ai lavoratori stranieri. Nel frattempo il nostro livello medio di acculturamento si abbassa. Regno Unito, Svizzera, Germania, le mete preferite dei nostri giovani, ringraziano per il meglio del made in Italy.
Cosimo Risi
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