A quando uscì Nero a metà, l’albo della svolta e dell’affermazione artistica del cantante – compositore che impastava magicamente ritmi e stili diversi fra loro: jazz e blues e melodia, inglese e napoletano e italiano. Alcuni pezzi di quell’album sono i più ascoltati di sempre, fra loro il pubblico sceglie inevitabilmente il preferito. Alcuni propendono per Quanno chiove che, nato nelle intenzioni dell’autore come un pezzo riempitivo, raggiunge vertigini compositive pari solo ad alcune di Paolo Conte.
L’amore per Pino è tale che all’ultimo concerto cogli amici e colleghi di sempre, al Plebiscito, appena attacca I Say Io Sto Ccà, il pubblico completa il pezzo al posto suo. Lo urlano ragazzi e ragazze che quando fu composto, nel 1980, neppure erano nati. Una tradizione di famiglia evidentemente l’aveva imposto come colonna sonora di casa. Una specie di inno domestico che diviene cittadino e collettivo.
Nel momento della civica riconciliazione nel nome di Pino, Napoli non trova un comune modo di pensare fra il Sindaco e lo Scrittore più famoso del momento. De Magistris e Saviano sono portatori di un’immagine della città che elide l’altra. La città appare dimidiata persino nella sua rappresentazione sui media. Suscita un dibattito che non prosegue negli spazi giusti.
La provincia di Asti, così distante dalla metropoli campana per toni e ampiezza, festeggia il suo cantore ottantenne. Paolo Conte ha un’immensa popolarità ovunque e con punte presso il pubblico francofono che lo qualifica di “chansonnier”. Eppure ammette di avere scarsa conoscenza del francese e nessuna o quasi dell’inglese e dello spagnolo. Si dichiara un provinciale che è orgoglioso di esserlo e adopera i salti geografici (il baobab nel giardino del convento, Zanzibar) per condire i suoi versi di mondi lontani. Anni fa a Bruxelles un concerto di Conte, inizialmente programmato in un teatro, fu trasferito d’autorità in un palazzetto dello sport.
Tali e tante erano le domande di biglietti per l’evento che si annunciava unico. Conte cantò solo qualche pezzo in francese, per il resto si espresse in italiano. I miei vicini di posto, che visibilmente non conoscevano l’italiano, mi chiesero di tradurre per loro almeno i saluti al pubblico. Per il resto del tempo ripetevano a memoria le canzoni in italiano senza comprenderle appieno. Come noi da bambini ripetevamo le formule del latino ecclesiastico. Una litania rassicurante nel suo mistero.
Che sia il caso di Pino o di Paolo, al quale rinnoviamo gli auguri per i prossimi ottanta anni di scalate verbali, abbiamo motivo per essere fieri di queste glorie musicali. Nel famoso estero, il cui giudizio a volte attendiamo con ingiustificata ansia, sono due nomi sicuri. Sono personaggi italiani e internazionali insieme: felicemente cosmopoliti.
Cosimo Risi
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