Site icon Salernonotizie.it

Lineamenti di una proposta di riforma della PA in Italia di Angelo Giubileo

Stampa
La Pubblica Amministrazione, individuata da tutti come “ la burocrazia”, rimane uno degli ostacoli più ardui da superare per incamminarsi sulla strada della modernizzazione per poter finalmente raggiungere la tanto agognata normalizzazione della nostra Italia. Angelo Giubileo, vice direttore di Pensalibero, con l’articolo che segue,  apre una discussione molto interessante e propositiva sulla questione con nuove idee e nuove proposte

– In un editoriale del Corriere della sera del 4 gennaio u.s., L’imbuto dove tutto si ferma, il giurista accademico e giudice emerito della Corte costituzionale Sabino Cassese scrive, in particolare, che Ci aspetta un periodo di turbolenza politica e di incertezze(…) Possiamo evitare un ulteriore declino soltanto se ci dotiamo di una struttura esecutiva robusta, che sappia rispondere agli indirizzi che le dà il Parlamento con le leggi. Diventa, quindi, importante dedicarsi ai “rami bassi”, all’amministrazione, perché la macchina statale è lenta e inefficace

Il dossier che segue, in risposta alle esigenze rappresentate, pone l’accento sull’opportunità ormai imprescindibile di riformare l’attuale nostro sistema di PA, gravato soprattutto da un ingente debito pubblico, la cui cura negli anni recenti è stata affidata a un coacervo di società con capitale misto pubblico-privato, che nella maggior parte dei casi non hanno fatto altro che incrementare sia i costi che le inefficienze dell’intero sistema. Il dossier quindi analizza e propone – in un’ottica necessariamente di lungo periodo, quale nuovo modello strutturale di organizzazione – un nuovo modello di organizzazione incentrato sull’istituzione e lo sviluppo di ZES (Special Economic Zone, in inglese SEZ). Si tratta di un modello adottato con ampio successo sin dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso in Cina e oggi sempre più diffuso a livello globale.

La crisi strutturale del sistema e il peso del debito pubblico

Un serio progetto di riforma della Pubblica Amministrazione in Italia deve tenere conto necessariamente del dato relativo all’ingente peso del debito pubblico, stimato attualmente, secondo ogni indice di riferimento, superiore a € 2.200 miliardi per un valore pari a circa il 133% del PIL. Altro dato rilevante, è il fatto che questa stessa stima in termini percentuali è in crescita ininterrotta almeno dal 2007, anno in cui è esplosa la crisi dei mercati internazionali originata dai mutui subprime statunitensi.

Ancora, rispetto al dato generale del debito pubblico, il dato del debito “non consolidato” delle amministrazioni locali, secondo quanto accertato e reso pubblico da Banca d’Italia, a fine 2015 è stato cifrato pari a € 135 miliardi e 696 milioni. Di guisa che il dato medesimo degli ultimi anni risulta in pratica costante; salvo variazioni minimali, localistiche e settoriali, e in ogni caso effetto maggiormente delle misure di finanza pubblica contenute nei Patti di stabilità annuali. Patti, è bene ricordarlo, controfirmati prima dal Governo in ambito Ue e poi, in sede nazionale, dalle rappresentanze delle diverse Autonomie amministrative presenti localmente.

E’ discutibile, ma a mio parere riterrei superato il giudizio circa una presunta “sostenibilità” del nostro debito; infatti, la tesi – che, al netto della spesa degli interessi e in termini reali, negli anni dell’ultima crisi il debito sia rimasto piuttosto invariato – non convince per il semplice fatto che la crisi non si configura come crisi congiunturale bensì strutturale, di sistema, e quindi manifestatasi essenzialmente in quanto crisi del sistema economico in generale.

Il secondo dato generale – che è dunque emerso in Italia e che considererei con altrettanta se non maggiore apprensione rispetto al dato del debito – è pertanto quello relativo al PIL e quindi alla crescita. Il dato europeo corrispondente e relativo agli ultimi venti anni, secondo la Banca mondiale, colloca l’Italia all’ultimo posto della classifica con una crescita del PIL pari all’1,9%. Il raffronto con gli altri paesi è quasi disarmante; ne cito solo alcuni: Irlanda 86,1%, Regno Unito 33,8%, Germania 28,7%, Spagna 23,9%, Francia 20,7%, perfino la Grecia 13,5%; mentre, fuori dall’Europa e a eccezione dell’exploit in particolare di Cina e anche India, solo per citarne alcuni: Australia 42,5%, USA 32%, Giappone 16,1%.

Tanto premesso, è chiaro che i nostri governi, soprattutto nell’ultimo quinquennio e ancora in prospettiva futura, hanno adottato e ricerchino misure atte a favorire gli investimenti dall’estero; investimenti che sono ritenuti necessari sia alla formazione che alla creazione di nuovo sviluppo, mediante una logica di mercato che, divenuto questo globale, costituisce anche una fonte quasi esclusiva dell’occupazione.

 

Il nuovo modello di sviluppo globale

Nel presente, sembra dunque emergere sempre più una strategia globale di sviluppo. Che, sia chiaro – sul piano razionale e al netto d’interventi militari finalizzati a un esclusivo ma in ogni caso sterile dominio del territorio -, non concede alternative di sistema; nel senso che, secondo un efficace slogan dell’ex segretario generale dell’ONU Kofi Annan: Contestare la globalizzazione è come contestare la legge di gravità. Parag Khanna, il più accreditato politologo statunitense di origine indiana, a ragione, parla e scrive oggi (2016) di Stati-relazione e non più di Stati-nazione: ogni volta che un paese è disposto a vendere, comprare o aprire il proprio territorio a un’amministrazione straniera su una così larga scala, si compie un passo in più verso il supply chain world nel quale l’ottimizzazione della geografia economica ha la meglio sulla custodia della sovranità territoriale.

Una supply chain world è, in breve, un’area di scambio commerciale “aperta”, cioè che in teoria non ammette confini, un’area in cui sia facilitato l’accesso per lo scambio di persone e beni, in alternativa al vecchio e superato modello della sovranità statale preposta alla distribuzione delle risorse esistenti e disponibili viceversa in via esclusiva – occorre sottolineare – sul territorio. In pratica, si tratta della gestione di una catena di fornitura e quindi la gestione di un sistema, analogo a quello tradizionale della PA, di organizzazioni, persone, attività, informazioni e le risorse necessarie per trasferire un prodotto o servizio da fornitore acliente. E quindi, in analogia, uno schema assai compatibile, che potrebbe cioè essere assunto nell’ambito di una proposta di riforma della PA in Italia; tenuto però conto preliminarmente dei limiti, finalizzati alla realizzazione del nuovo percorso di riforma, del modello-standard attuale.

E pertanto necessiterebbe dapprima creare le condizioni o meglio le pre-condizioni perché la proposta del nuovo modello di PA possa trovare attuazione. Queste pre-condizioni rappresentano peraltro un dato che dovrebbe essere sempre connaturato alla formazione e allo sviluppo di un sistema quale quello della PA. In breve, occorrerebbe innanzitutto garantire, in ogni caso: una rete di legalità (attraverso il coordinamento di prefetture, magistrature, Anac ed enti coinvolti nel “progetto”, e di questo soprattutto diremo a breve); la digitalizzazione dei dati e degli elementi in possesso della PA; l’accesso e la disponibilità degli stessi dati amministrativi (AgID); una legislazione (nazionale e speciale, e anche di questa soprattutto diremo a breve) trasparente e certa in materia di dichiarazioni, atti e procedure, costitutive e di ricorso; relativi tempi celeri di realizzazione.

La scommessa e quindi l’obiettivo sarebbe quello di trasformare la PA – con i suoi vari settori, rami, enti ed uffici territoriali – in “piattaforme d’intermediazione e facilitazione” tra i vari stakeholders.

 

Il modello dello stato cinese e le ZES

Negli ultimi trent’anni circa, l’economia della Cina è cresciuta annualmente a un tasso medio in misura pari al 10% del PIL, il cui valore nel 2014 ha superato quello corrispondente degli USA.

Sulla scorta di un’accurata analisi di studio e informazione dell’ICE (Istituto Nazionale per il Commercio Estero), il boom dell’economia della Cina è dovuto inizialmente a una “politica di riforme economiche (la cosiddetta politica della porta aperta) intrapresa nel paese a decorrere dal 1978”. Queste riforme sono state incentrate sull’istituzione e lo sviluppo delle prime cosiddette ZES (Special Economic Zone, in inglese SEZ).

La ZES è un’area geografica dotata di una legislazione economica differente dalla legislazione in atto nello stato o comunità di appartenenza. In base a questa semplice ma essenziale definizione, è chiaro che il funzionamento, e quindi il meccanismo digestione di una ZES, dipende dal sistema di organizzazione del potere di governo del territorio sia a livello centrale che periferico o locale. Tanto per semplificare ancora, ma in maniera senz’altro efficace, è lecito chiedersi se negli ultimi trent’anni la Cina abbia sperimentato e in definitiva acquisito un modello di gestione amministrativa, ovvero un modello di relazioni fra governo centrale e autonomie locali, semplicemente migliore rispetto a ogni altro, possibile.

Tutti gli osservatori concordano su un fatto, così come si legge nel Rapporto medesimo, e cioè che “Nel 1990 (sia stata) costituita la prima e più vasta zona franca della Cina, la ‘Waigaoqiao Free Trade Zone’, situata all’interno della cosiddetta Pudong Area, a circa 20 chilometri da Shangai, gestita da un organismo autonomo, la Waigaoqiao Free Trade Zone Administration, e beneficiante di particolarissime agevolazioni ancora più vantaggiose delle normali free trade zones”. E, per quanto qui interessa, sempre il Rapporto conclude: “Altre zone economiche speciali e zone franche sono state infine istituite anche da autorità a livello locale e tutte caratterizzate, come le zone nazionali (n.d.r.: tra cui quella citata), da varie forme di agevolazioni agli investimenti esteri. Tutto ciò ha portato ad una struttura diversificata di ‘apertura’ a più livelli, pluricanalizzata, multidirezionale che integra aree costiere, zone di frontiera e zone dell’interno”.

Si tratta di un modello esportabile? Compatibile con la disciplina Ue? Esportabile anche in Italia? E, in ambito di riforma della PA, proponibile e quindi realizzabile rispetto alla configurazione dell’attuale modello di gestione amministrativa presente sul territorio?

 

Il modello di gestione e di sviluppo del territorio in Italia

In Italia, l’esperienza dei governi dimostra, in negativo, senz’altro la gran parte del fallimento di una politica gestionale delle risorse disponibili sul territorio, che dura da sempre. Faccio riferimento al problema evidente del gap irrisolto tra l’area, in generale, del Nord e l’altra area rappresentativa del Sud del paese. E’ indubbio che, a più di un secolo e mezzo dall’unità d’Italia, tutti i meccanismi di gestione all’uopo sperimentati non abbiano prodotto il risultato e quindi il raggiungimento sostanziale dello scopo unitario. E tuttavia, in alcun modo non serve essere pessimisti sul destino che comunque sarà.

In ordine temporale, l’ultima scelta strategica del paese è stata questa, ancora valida e in prospettiva senz’altro efficace, del cosiddetto “vincolo esterno” in favore di un meccanismo complesso di sovranità europea. In particolare, Guido Carli sosteneva che “una politica fondata su una legislazione vincolista, sul controllo amministrativo, sull’azione di governo finalizzata alla gestione degli scambi e della produzione, in ultima istanza una politica ispirata da una logica di piano, per essere attuata necessita di uno Stato efficiente, di uno Stato ben strutturato, di uno Stato moderno. Come per esempio egli riteneva che fosse l’apparato statale francese” (Keynesblog, 2013).

La prospettiva del nuovo modello di PA appare quindi in assetto con le linee di sviluppo del processo di globalizzazione in atto, concernente lo scambio di persone e beni sui territori e, in definitiva, con il nuovo modello di scambio commerciale che da oltre trent’anni investe, nel complesso positivamente, l’intero pianeta.

Il funzionamento di questo nuovo modello statale necessita di una doppia Autorità gestionale, centrale e periferica, che preveda agevolazioni in materia di imposizione fiscale e concessione di diritti per lo sfruttamento del territorio, realizzi infrastrutture materiali e non – in modo crescente servizi e asset specifici inerenti allo sviluppo di una nuova economia della conoscenza – si occupi delle autorizzazioni e delle verifiche necessarie all’attuazione di specifici progetti d’investimento, distinti per specifiche aree territoriali di riferimento.

In Italia, ritengo che questo non solo sia oggi possibile, ma addirittura imprescindibile. Quello che, finanche in tempi più recenti, era considerato il treno nazionale (USA) o talvolta il vagone (Germania) dell’economia che occorreva agganciare per lo sviluppo del paese; oggi è diventato il treno transcontinentale della globalizzazione. Il nuovo modello di PA dovrebbe quindi essere strutturato e gestito sia da un’Autorità centrale – che è quella del governo, la quale adotti sul territorio progetti industriali pianificati in sede europea – sia da un’Autorità locale, che coordini e garantisca ancor più l’effettiva realizzazione del progetto specifico.

Esempi d’iniziative connesse allo scopo

In rete, mi sembra che sia finora possibile rinvenire una sola iniziativa legislativa (C3314/2015) diretta allo scopo che qui è prefissato. Tuttavia, già questa sola esperienza, in sé e per sé, dimostra le potenzialità di sviluppo di un modello di sistema che, è bene ribadirlo ancora una volta, con il tempo circa trentennale finora trascorso, all’opposto di quanto sperimentato e accaduto in Italia, si è dimostrato ovunque vincente. Oggi, ZES di successo sono presenti diffusamente nel mondo, non solo in Cina; ne esistono oltre 4.000, così definite da Khanna: città pop-up del supply chain world.

La proposta di legge N. 3314, presentata alla Camera dei deputati lo scorso 16 settembre 2015, elenca in premessa lo scopo di rilanciare le attività che gravitano intorno alle infrastrutture come i porti e gli aeroporti e di stimolare l’assunzione di personale del luogo, al fine di rilanciare un’economia colpita da una grave crisi.

In particolare, a mio personale parere, la proposta contiene all’art. 3, commi 3 e 4, una conferma e viceversa un interessante spunto d’analisi, dai quali entrambi partire per la formulazione di una proposta di riforma della PA nel senso qui auspicato.

Il comma 3 – alla stregua piuttosto di un’opinio juris ac necessitatis – prevede che: Le nuove imprese che si insedieranno nelle ZES operano in piena armonia con le normative nazionale e dell’Unione europea e con gli specifici regolamenti adottati per il funzionamento delle ZES. Le imprese già presenti nel territorio al momento della costituzione giuridica della ZES sono registrate come imprese della ZES e assimilate alle nuove imprese, fatta eccezione per le agevolazioni fiscali per le quali è applicato un sistema differenziato.

Invece, il comma 4 elenca in dettaglio le “competenze” spettanti all’autorità o “soggetto giuridico” che assume la gestione del “progetto imprenditoriale” annesso e connesso alla realizzazione sul territorio. E quindi: definizione di procedure semplificate per l’insediamento di nuove imprese e per la costituzione di uno sportello unico che funzioni da interfaccia con i potenziali investitori;definizione dei requisiti amministrativi e tecnici necessari per la registrazione di un’impresa nella ZES; definizione dei termini per la concessione o per la vendita di aree coperte o scoperte per nuove iniziative; lottizzazione dei terreni; progettazione e costruzione di nuove infrastrutture funzionali allo sviluppo dell’area; progettazione e realizzazione di opere di pubblica utilità e di servizi reali, quali trasporti, illuminazione, telecomunicazione e sicurezza; promozione sistematica delle aree verso i potenziali investitori internazionali; supervisione amministrativa, ambientale e sanitaria; ogni altra attività finalizzata al buon funzionamento della ZES.

In ragione delle competenze indicate, la proposta di legge provvede anche alla caratterizzazione dell’Autorità di gestione quale “soggetto giuridico di capitale misto, pubblico e privato”. Anche a tale proposito, appare quindi evidente che il destino della PA in Italia è legato alle nuove capacità d’imprenditoria che occorre necessariamente sviluppare.

L’esperienza di questi anni più recenti attesta tuttavia il fallimento del modello di sviluppo incentrato sulle cosiddette Società miste ovvero di gestione e di capitale sia pubblici che privati. E pertanto, risulta oltre modo auspicabile e così concludo che sia piuttosto la PA a riprendere in concreto, da subito e per il futuro, quel ruolo di motore propulsivo che ne ha sostanzialmente caratterizzato l’azione durante gli anni della transizione, significativamente, dal Secondo dopoguerra e fino alla Caduta del Muro.

Angelo Giubileo – Vicedirettore Pensalibero

Exit mobile version