Il Libro Bianco di Juncker su cui nessuno scrive (di Cosimo Risi)

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Jean Claude Juncker presenta al Parlamento europeo il Libro Bianco della Commissione sul futuro dell’Unione europea. Il titolo è ampolloso: si tratta di dare materia alla riflessione dei 27 Capi di Stato o di Governo che si riuniranno a Roma il 25 marzo per la cerimonia del sessantesimo anniversario.

“Food for thinking” (cibo per pensare) è l’espressione in diplomatichese per definire questo tipo di esercizio. In genere tale cibo è somministrato dai “think tank” (i centri studi) che pullulano a Bruxelles e non dalle istituzioni europee, le quali dovrebbero mostrare capacità di “leadership” e cioè di guida dei processi politici in seno all’Unione specie ora che sta per affrontare il recesso britannico.

Col Libro Bianco la Commissione esita a prendere posizione nella partita per non figurare come uno dei giocatori che sia poi smentito dagli altri. Indica cinque opzioni: da quella minimale di limitare l’azione europea al mercato unico a quella massimale di proseguire tutti assieme verso l’integrazione anche in settori poco esplorati (difesa, sicurezza interna, fiscalità).

Bada a non disturbare il manovratore con la premura a decidere. Il manovratore è una pluralità di soggetti: i partiti europeisti che stanno per cimentarsi nelle competizioni elettorali. Il 2017 è anno di votazioni nei Paesi Bassi, in Francia, in Germania, mentre l’Italia  seguirà ai primi del 2018.

In quattro stati membri fondatori si deciderà se i partiti tradizionali terranno o se prevarranno (e di quanto) i movimenti genericamente populistici. Inquieta il caso francese. A Parigi si  profila la vittoria del Front National di Marine Le Pen, avvantaggiato ora nei sondaggi e poi nelle urne dalle difficoltà del candidato centrista, quel Fillon che, partito Presidente, rischia di restare senza neppure la candidatura.

Il manovratore di riferimento, l’azionista di maggioranza se l’Unione fosse una società per azioni, sta a Berlino. La candidatura di  Schulz ha le ali della novità e potrebbe mettere in discussione l’eterno primato della Merkel e costringerla alla grande coalizione all’inverso: con i socialdemocratici in prima fila ed i cristiano-democratici in seconda. L’ondata populistica pare contenuta  in Germania, che è paese stabile sotto il profilo degli umori elettorali. Per i tedeschi la conservazione significa conservare i benefici ed evitare i rischi dell’avventura.

La reticenza di Juncker pare dunque comprensibile, anche perché egli, che prudente è di indole, sconta le riserve del blocco orientale a qualsiasi scenario di integrazione più stretta. Il Gruppo di Visegrad (Cechia, Ungheria, Slovacchia, Polonia) sta a guardare. Non ha l’interesse a seguire il Regno Unito nel recesso perché perderebbe i vantaggi delle politiche di coesione, non ha neppure l’interesse a cedere altre fette di sovranità a favore di Bruxelles. Anzi, la parola d’ordine  fra loro è di riprendersi parte di quanto si diede nell’euforia dell’adesione. I paesi di Visegrad considerano l’Unione come una sorta di società per azioni. Gli azionisti si presentano a incassare le cedole, mollano quando i conti vanno in rosso.

Da qui al 25 marzo e oltre ne ascolteremo di prese di posizione, mentre da Londra giungono i segnali di “hard Brexit”, un’uscita rapida e senza sconti persino ai residenti europei (anche se la Camera dei Lord la pensa diversamente).

Il lettore scuserà il ricorso alle espressioni inglesi, ma quando ci vuole ci vuole.

 

 Cosimo Risi

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