Cassazione, Lavoro: Da reintegrare lavoratore licenziato divenuto inabile se reinserito in altre mansioni

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Anche in tempi di demolizione legislativo-governativa dei diritti dei lavoratori, un’attenta giurisprudenza, spesso di legittimità, interpreta la legge sulla base di principi condivisibili anche da un punto di vista morale. Perché un lavoratore dichiarato inabile alle mansioni originariamente assegnate, non deve essere espulso tout court dalla propria azienda, specie quando questa conserva, anche per le dimensioni, posizioni che gli consentirebbero di poter continuare a lavorare seppur in mansioni differenti anche per la propria ridotta capacità lavorativa. Proprio in data odierna rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, la Corte di Cassazione con la sentenza 18020/17, si è espressa sul punto, ritenendo che dev’essere reintegrato il dipendente licenziato perché divenuto inidoneo alle mansioni nonostante goda di una residua capacità lavorativa che gli consente di essere reimpiegato in funzioni diverse.

Per i giudici di legittimità, ha errato la corte di merito nel riconoscere al lavoratore solo il risarcimento sul rilievo che la reintegra sarebbe dovuta unicamente nel caso di manifesta insussistenza del fatto: al contrario dev’essere applica il settimo comma dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che prevede espressamente la tutela reale quando il recesso datoriale si rivela privo di giustificazione. Nella fattispecie è stato accolto il ricorso di uno steward licenziato dalla compagnia aerea di appartenenza perché le condizioni di salute non gli consentivano più di svolgere le sue funzioni di assistente di volo. Ciononostante una consulenza tecnica d’ufficio medico-legale avesse accertato soltanto che l’addetto fosse solo temporaneamente non idoneo a svolgere le mansioni: già per questo motivo il giudizio andrebbe riveduto. Peraltro, il dipendente ha conservatp capacità lavorative per l’assistenza a terra. Ergo, dev’essere applicato il settimo comma dell’articolo 18, così come rivisto dalla riforma Fornero, secondo cui quando il licenziamento risulta intimato per un giustificato motivo oggettivo individuato – tra le altre ipotesi – «nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma» dell’articolo 18 «nell’ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione».

La Corte d’appello ha quindi errato nel disapplicare la risoluzione automatica del rapporto prevista dal Ccnl, senza tuttavia motivare in tal senso. Infine, dev’essere ritenuta nulla la norma pattizia laddove non prevede garanzie per il lavoratore nell’ipotesi di scioglimento del contratto che segue all’inidoneità permanente accertata. L’errore sta nell’escludere la reintegra sul rilievo che il fatto posto a fondamento del licenziamento non possa essere ritenuto manifestamente insussistente: di fronte al fatto che il dipendente può ancora lavorare il giudice non ha alcuna discrezionalità, ma deve disporre la reintegra.

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