Governo si, governo no, Bruxelles non aspetta (di Cosimo Risi)

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Mentre la politica si destreggia da mesi nel dilemma del governo si – governo no, la macchina di Bruxelles macina proposte di “grande envergure”, come una volta si diceva nel francese della capitale belga. La Commissione Juncker si accinge al suo ultimo grande atto prima della scadenza del mandato nel 2019 con il Piano Finanziario Quinquennale (PFQ).

La denominazione, che richiama sinistramente quella in voga in Unione Sovietica, designa l’insieme delle entrate e delle spese da iscrivere nei bilanci europei 2021 – 27. Poiché l’esercizio non è meramente contabile, indicare il tetto delle spese sin d’ora significa dare un indirizzo politico alla vita dell’Unione.

Il tetto dovrebbe superare di poco l’1% del PIL globale UE. Il facile argomento dei sovranisti che a Bruxelles si sciala dovrebbe cadere a fronte della severità delle cifre. L’1% è poca cosa rispetto ad un’Unione che, lo si voglia o no, resta l’agglomerato collettivamente più ricco del pianeta.

Il primo dato a balzare agli occhi è la previsione basata su un’Unione a 27. Si dà per scontato che dal 31 marzo 2019 il Regno Unito uscirà dalla comune e continuerà a versare una certa somma alle casse europee in virtù degli impegni di spesa che aveva assunto quando Brexit non era ancora nell’aria.

Verrà comunque a mancare il contributo britannico al bilancio per oltre 10 miliardi di euro. Il contributo non sarà bilanciato dal finire del rimborso britannico, quella somma che nel secolo scorso la Signora Thatcher ottenne al grido “give my money back”.

Presto Londra avrà indietro tutto il suo denaro, anche se d’importo decisamente minore da quello vagheggiato dai separatisti all’epoca del referendum 2016. Col denaro risparmiato, dicevano, il Governo di Sua Maestà avrebbe finanziato una migliore assistenza sanitaria. I malati britannici dovranno rassegnarsi ad una sanità più o meno simile all’attuale.

L’altro dato è che la Commissione omette le simulazioni circa le adesioni di nuovi stati membri. Alcuni candidati premono alle porte: Serbia, Montenegro, Albania. La Commissione Juncker, all’atto dell’insediamento, aveva promesso che non vi sarebbero stati allargamenti nel quinquennio, e così è stato. La Turchia, eterna candidata all’adesione, s’è infilata da sola nel cono d’ombra dopo i fatti dell’estate 2016 e là sembra che voglia restare facendo ben poco per riguadagnare le simpatie dell’Unione.

La Commissione intende qualificare la spesa sottraendo risorse ai settori tradizionali (agricoltura, coesione) per riversarle sui beni pubblici europei. I beni pubblici europei sono ricerca e innovazione, sicurezza e difesa. La sicurezza è declinata nella duplice accezione “hard” (militare) e “soft” (protezione delle frontiere).

Bruxelles si accorge che gli stati membri di prima linea rispetto al fenomeno migratorio sono rimasti in prima linea senza che nessuna o quasi retrovia sia intervenuta ad alleviare il peso. I paesi costieri fronteggiano in poco splendida solitudine i flussi degli arrivi mentre i paesi terragni stanno a guardare, chiusi nella difesa della purezza nazionale.

Come se in Europa potessero esserci nazioni pure e nazioni impure. Quanto la solitudine pesi sugli equilibri politici è facile vedere. Dai risultati elettorali emerge che il sovranismo è la risposta se si vuole semplicistica a fenomeni complessi, che solo la solidarietà comunitaria potrebbe affrontare.

Il negoziato sul PQF decolla a fine giugno in seno al Consiglio europeo dove la delegazione italiana sarà guidata dal nuovo Presidente del Consiglio. Rivolgiamo gli auguri di buon lavoro con l’auspicio che sappia coniugare interesse nazionale e interesse europeo. Nel solco della nostra migliore tradizione politica.

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