L’hacker italiano rivela: “Così vi rubiamo la vita”

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“Già quando avevo 17 anni ho bucato di tutto, tra cui anche Fiat e Ansaldo”. E ancora: “Ho fatto credere a un paio di ministri dell’ America del Sud che stavano entrando in conferenza con un Ministro italiano e con il Presidente”. A parlare è Raoul Chiesa, uno dei primi hacker italiani.

L’intervista

Le sue prodezze (se così si possono definire) lo hanno portato a lavorare con la Nato e Interpol come formatore. “Con alcuni amici abbiamo fatto scherzi chiamando fino in Cile e la chiamata ruotava dal Giappone. Eravamo in conference call, tre adolescenti, ognuno nella sua città e nella sua stanzetta, con le cuffie a divertirci come dei pazzi a fare scherzi. Questa è la parte goliardica”. Ma c’è molto di più.

“Passavo ore, giorni, settimane, anni, davanti al com puter durante la notte. La mamma si arrabbiava per la bolletta telefonica della Sip, ma sono diventato famoso perché ho violato Bankitalia, non rubando o dannegiando, perché non era quello lo spirito, anzi, avvertendo che il sistema era insicuro. In America – spiega Chiesa a Il Tempo – ho fatto altri buchi con il mio club di amici e oggi siamo tutti top esperti di security. Penso che questo sia un percorso abbastanza obbligato. Adesso posso tornare negli Stati Uniti dove da anni collaboro con Fbie tutte le agenzie”.

Di strada di certo ne ha fatta: “Fino al 1993 ero uno studente a New York. Poi ho avuto una restrizione per oltre 10 anni perché l’Italia ha rifiutato l’estradizione. Non sono il solo esempio di hacker che prima cacciavano e oggi li aiuta”. Mentre lui cresceva, le tecnologie mutava e si evolvevano. Per rubare dati ci sono due metodi: “Il server che attacchi in tante maniere, ed è il metodo più tradizionale. Ma in questi 30 anni internet si è spostata sull’ utente, nel senso che è l’utente che fa tante cose. Quindi l’ attacco parte passando dall’ utente con una mail di phishing oppure con un sms corrotto sul cellulare”.

Oggi Chiesa collabora con diverse istituzioni. Ma occhio a chiamarlo pentito: “Non è un termine che mi piace perché non sono pentito. O meglio, credo che non sarei qua se non avessi fatto quello che ho fatto. Sono cresciuto con i computer ma non c’ era internet, Linus e Open source. Quando avevo 13 anni in Italia arrivò Videotel, poi la rete commutazione di pacchetto, le messaggerie e dopo internet.

A scuola ci insegnavano il Dos su Olivetti e io la sera bucavo la Fiat e il professore di informatica non ci credeva. Sono estremamente grato alla buonanima del dottor Pietro Saviotti, alla dottoressa Scienzi e a tutti quelli dello Sco che mi presero quando fu rifiutata le richiesta di estradizione in America, altrimenti non sarei qua. Ho fatto tre mesi e mezzo ai domiciliari, uno choc per un ventenne. Mi hanno tolto il computer, i telefoni (a 18 anni avevo tre cellulari Tacs). Ho riflettuto tanto e ho deciso di non voler vivere mai più un incubo del genere: anche perché non ho mai rubato e danneggiato nulla. Ho bucato tutto, ero nella top ten mondiale con altri amici che oggi hanno fatto i soldi. Io no, ma sono grato perché probabilmente oggi avrei preso una cattiva strada”.

Fonte IlGiornale.it

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