Pino Daniele, artista globale e locale (di Cosimo Risi)

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E’ patetico, all’inizio dell’anno, ricordare che abbiamo davanti un anno senza Pino Daniele? La comunità dei melomani tiene a mente la data di gennaio che li ha privati del cantante della napoletanità, intesa nel senso migliore del termine. Non quella di Gomorra né dei rifiuti per strada e dei feriti per i botti.

Quella del retaggio artistico che ha in Eduardo e Totò i Maestri riconosciuti e in Troisi e molti altri i degni epigoni. Quella che Renzo Arbore ironicamente rispolvera nel suo ultimo programma televisivo. Quella che scrittori di successo rappresentano in chiave noir.

Per chi vive all’estero e frequenta l’immensa collettività campana della diaspora, l’aggancio al patrimonio linguistico è la chiave del “glocalismo”, crasi di global e local. Per gli espatriati il glocalismo significa parlare la lingua del paese di accoglienza, o lo “international English”, quel gergo buono a tutto che si adopera anche in posti non anglofoni. Significa parlare la lingua delle origini: il napoletano nelle sue molteplici varianti.

All’estero il nostro sound pare uniforme a tutti gli effetti. Hai voglia a distinguerti come salernitano o altro, gli indigeni ti classificano come napoletano, il napoletano essendo una categoria culturale prima che un’appartenenza di origine. Si aspettano che tifi per la squadra e porti addosso il santino di Maradona.

Mi è capitato di frequentare napoletani dalla denominazione di origine protetta, chi del centro storico e chi del Vomero e chi di Fuorigrotta. Uno mi canzonava quando gli parlavo:  non ti seguo, che lingua usi? Era un  giovane collega, lo minacciai di sanzioni, ovviamente mai irrogate, d’incanto prese a capirmi.

Anni fa, agli esordi della carriera, Pino Daniele venne ospite a Parigi nella residenza privata di un dignitario napoletano così “glocal” da preferire il syrah all’aglianico. Aveva la chitarra con sé, a fine serata improvvisò qualche accordo. Gli ospiti cominciarono a cantare sulle note subito riconosciute. Chi masticava poco il napoletano, ma afferrava quel poco di inglese del testo (Yes I know my way), si limitò al mormorio di sottofondo. I conoscitori della lingua correggevano gli errori di pronuncia.

Pino era riservato, le attenzioni lo mettevano a disagio, ancorché gli ascoltatori  fossero pochi e amichevoli. Sfondò con il pubblico parigino, per definizione sofisticato, avrebbe sfondato col vasto pubblico del mondo.

Col suo mélange anglo – napoletano Pino trova la formula artistica che riflette il carattere della Regione. Il messaggio è di attualità, e non solo per la freschezza delle canzoni. In epoca di chiusure verso gli “alieni”, Pino indica la via alla multiculturalità. Al nordismo ribatte che ci sta sempre il nord del nord. A sud trova le sonorità arabe e africane che amalgama con l’inglese alla moda. Lo snodo è il napoletano, la chiave del glocalismo.

Cosimo Risi

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