Dove sta la politica estera? La cerco e non la trovo (di Cosimo Risi)

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La politica estera è una cosa seria. L’affermazione può apparire apodittica, ci vuole una certa dose di dogmatismo per affrontare questo nodo cruciale della nostra vita pubblica. Siamo talmente presi dalle minuzie del quotidiano che ignoriamo, chi scientemente e chi superficialmente, che i nodi politici sono allacciati e sciolti altrove. Non nei salotti televisivi né in rete.

Le decisioni attengono alle grandi capitali del mondo ed alla relativamente piccola capitale d’Europa. Carlo Maria Santoro era un diplomatico e un accademico, scrisse nel 1991  un libro di qualche notorietà: La politica estera di una media potenza.

L’Italia è una media potenza che trae la ragione d’essere dalle scelte che seguirono alla sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale. Fummo vinti e non debellati grazie al cambio di casacca in corsa ed alla Resistenza. Le scelte fondamentali furono due: le relazioni transatlantiche con Stati Uniti e Canada, il processo d’integrazione europea. La prima si sostanziò nell’adesione alla NATO e naturalmente all’ONU. La seconda nella sottoscrizione del Trattato CECA e poi del Trattato CEE.

L’appartenenza ai due ambiti consente vantaggi e impone obblighi. I vantaggi sono presto detti. La nostra sicurezza è garantita dall’ombrello atlantico. Ora che gli Stati Uniti pensano anzitutto a se stessi, siamo messi di fronte alle nostre responsabilità specie sul fronte finanziario: la sicurezza costa molto. Il nostro benessere è garantito dall’appartenenza all’Unione.

L’economia sociale di mercato che informa i nostri sistemi è stata finora la felice sintesi fra profitto e solidarietà. La sintesi è ora messa in discussione dal prevalere del profitto: si tratta di correggere la distorsione e riprendere a parlare dei diritti sociali in senso lato.

Gli obblighi sono anch’essi presto detti. Il primo è quello della consultazione degli alleati e dei partner e, nella massima misura possibile, dell’adesione ai comportamenti collettivi. Da media potenza possiamo permetterci le iniziative unilaterali, nella consapevolezza però che si tratta di episodi isolati su cui dobbiamo cercare quanto meno la non riserva dei partner  importanti.

Il complesso delle decisioni dovrebbe essere oggetto di dibattito parlamentare  per essere poi trasferito alla cittadinanza anche coi mezzi della moderna comunicazione. Invertire i momenti pone la politica estera a rischio.

Si prenda il caso del Venezuela. Nel paese vivono decine di migliaia di italiani. Basti pensare a quelli di origine salernitana che, tornati in Cilento, ricordano Simon Bolivar nella toponomastica.

Con la Spagna, che si prefigge protettrice dell’ispanofonia in America Latina, siamo lo stato membro di punta riguardo alla crisi di Caracas. Mentre alcuni governanti si allineano alle posizioni europee, altri senza titoli istituzionali smontano il meccanismo con le interviste televisive. E di questo si discute fino a sospendere la decisione del Governo.

Si prenda il caso della Francia. Sempre in TV, alcuni scoprono che in Africa circola il franco CFA: come se fosse un fatto di oggi e non risalente all’epoca post-coloniale. Da questa scoperta  evincono che i mali dell’Africa derivano dal controllo di Parigi.

L’appartenenza all’Unione implica il bon ton diplomatico. L’Unione, che lo si voglia o no, è una comunità di rapporti oltre che di interessi. Vale per Bruxelles quanto usa nelle case: i panni sporchi si lavano in famiglia. Sono molteplici le occasioni di incontro fra partner.

Niente impedisce ai nostri governanti di parlare con franchezza a francesi e tedeschi e olandesi dei punti che non condividiamo, avendo tutti il dovere, non solo di cortesia, di discuterne ai fini del compromesso. Altrimenti il giocattolo si logora fino a rompersi. Non sarebbe certo un progresso. Da media potenza rischieremmo di scivolare a potenza irrilevante.

(di Cosimo Risi)

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