Ma non se ne dovevano andare il 29 marzo? (di Cosimo Risi)

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Un tempo Karl Marx era autore di culto per qualsiasi intellettuale. Ora che è finito nel dimenticatoio merita riscoprire questa sua massima: la storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Il recesso britannico sta scivolando nella farsa, e neppure divertente.

La data di fine marzo è superata ed i Britannici stanno ancora abbarbicati all’Unione europea, che avevano deciso di lasciare con l’inopinato referendum del 2016. Non sono bastati due anni di negoziati con Bruxelles per trovare la soluzione giusta. Tutte quelle prospettate dai Ventisette ed accettate dal Governo britannico sono state respinte dalla Camera dei Comuni.

Lo Speaker gode di popolarità grazie alla fermezza con cui guida i dibattiti ed alla riluttanza a mettere in votazione lo stesso testo per la terza volta. That’s enough! – avrebbe dovuto intimare alla Premier mentre si accingeva a ripetere l’esame, alla stregua di una studentessa già respinta per demerito.

Una volta il docente strappava lo statino e lanciava il libretto alla malcapitata, ora con la registrazione elettronica il gran gesto non è possibile, resta lo sconforto dell’esaminatore per la terza prova fallita.

La via d’uscita della Signora May è stata di proporre l’approvazione del pacchetto e in cambio rassegnare le dimissioni. Lo scontro non verte sul merito della Brexit quanto sulla sua permanenza a Downing Street.

Il gesto sacrificale non basta a placare i parlamentari, alcuni del suo stesso partito, che evidentemente vogliono no deal e dimissioni. E’ comprensibile, ma solo fino ad un certo punto, la foga del leader laburista nello spingere la rivale verso l’uscita.

Con il movimento delle labbra la definì “a stupid woman”. Dell’epiteto si scusò asserendo che il labiale era stato malinteso. Il giudizio su Theresa probabilmente era veritiero, anche se andava espresso con la cortesia che ci si aspetta a Westminster. Mica è Montecitorio col parlamentare che mastica la mortadella.

La lezione da trarre dall’esperienza non ancora consumata di Brexit (lesson learned, per stare allo stilema inglese) è che uscire dall’Unione è quasi più difficile che entrarci. L’Unione è vischiosa. Crea tali legami fra gli stati membri che reciderli è doloroso. Non per il lascito di affetti, assai avari nel caso britannico, quanto per la divisione dei beni conseguente alla separazione.

Le famiglie si sfasciano al momento della successione, i coniugi si danno battaglia al momento del divorzio. La disputa diplomatica attorno a Brexit non conosce momenti di furore ma di frustrazione. Costruire insieme una prospettiva di integrazione nell’arco di decenni e smontarla nel battito di ciglia di un referendum: ci sta da pensare.

La nuova scadenza è fissata al 10 aprile quando si terrà il vertice straordinario dei Ventotto. Alla riunione May è chiamata a presentare un piano B. Ammesso che esista e sia viabile. Si prospettano altrimenti un ulteriore rinvio e nel frattempo le elezioni europee anche nel Regno Unito.

I rifondatori dell’Unione, quelli che vogliono l’Europa ma non l’attuale, dovrebbero riflettere sulla difficoltà di mettere mano ad un sistema che ha prodotto molteplici sotto-sistemi, ciascuno ad intersecare l’altro. Il diritto primario europeo scaturisce dai Trattati e produce il diritto secondario a regolare le attività degli stati e dei cittadini.

Uscire dal sistema principale sottovalutando i sotto-sistemi è un colossale errore di valutazione. Un caso di cecità politica che i Britannici, con loro e nostro rammarico, saranno chiamati a pagare e che già  pagano con l’incertezza persino circa la data del recesso.

Sventolare l’Union Jack davanti al Parlamento per invocare il rispetto del referendum non basta a recuperare la sovranità ceduta.

Cosimo Risi

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