Uccise cagnolina: motivazioni della condanna di Antonio Fuoco

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Lo scorso 8 aprile Antonio Fuoco, il responsabile della barbara uccisione della cagnolina Chicca, avvenuta a febbraio di due anni fa, è stato condannato in primo grado a ventuno mesi di reclusione per maltrattamento ed uccisione di animali. Nella giornata di ieri sono state depositate le motivazioni della sentenza numero 1299 del 2019, oggi rese note dall’avvocato Annabella Messina, che in aula ha rappresentato sette delle dodici associazioni che si sono costituite parte civile nel processo.

Sebbene il legale di Fuoco abbia preannunciato che farà appello, si tratta in ogni caso di un verdetto esemplare, con pochi precedenti in materia. Infatti, malgrado la riduzione che gli spettava per aver scelto il rito abbreviato, la pena è stata comunque considerevolmente aumentata per recidiva reiterata ed anche in considerazione della personalità del soggetto. Significativa, inoltre, anche l’entità del risarcimento danni che il giudice ha attribuito in favore di ciascuna parte civile, riconoscendo, in questo modo, valore alla tutela degli animali che perseguono le associazioni. Una sentenza che ribadisce la necessità di denunciare sempre tutti gli episodi di violenza nei confronti degli animali.

Nel riportare le motivazioni, il Comitato Uniti per Chicca ringrazia i giovani che hanno avuto il coraggio di denunciare, perché, per quanto nella legislazione italiana le condanne non siano sempre adeguate, certe azioni non devono restare impunite.Senza di loro oggi non avremmo avuto né un colpevole né una condanna. E si ringrazia il giudice, dottore Paolo Valiante, che ha dimostrato notevole sensibilità, circostanza che dovrebbe connotare tutti i procedimenti di questo tipo, affinché, malgrado l’esiguità delle pene che in generale prevede il nostro ordinamento e che devono essere sicuramente inasprite, questo sia un segnale molto forte che possa fungere da importante deterrente.

TRIBUNALE DI SALERNO

SECONDA SEZIONE PENALE

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il tribunale in composizione monocratica, nella persona del dott. Paolo Valiante, ha pronunciato all’udienza dell8 aprile 2019 la seguente sentenza nei confronti di Fuoco Antonio, nato a *** il *** ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv. *** del foro di Salerno

del reato di cui all’art. 544 bis c.p. perché, con crudeltà e senza alcuna necessità, provocava la morte – per frattura delle ossa craniche – del cane (di piccola taglia, mantello nero/bianco e di circa un anno di età) della propria compagna, percuotendolo con numerosi calci, sollevandolo e scagliandola a terra, continuandolo a percuotere anche dopo che lo stesso oramai non dava più segni di vita; quindi gli levava il collare, riponeva la carcassa in una busta di plastica abbandonandola poco dopo lungo il ciglio della strada.

Con la recidiva reiterata

In Salerno il 15.2.2017

del reato di cui all’art. 544 ter c.p. perché in diverse occasioni sottoponeva a sevizie il cane di cui al precedente capo, percuotendolo in maniera violenta, talora in maniera gratuita e senza alcun fondato motivo.

Con la recidiva reiterata

In Salerno fino al 15.2.2017

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con decreto emesso dal pubblico ministero in data 22.11.2017, Fuoco Antonio veniva citato a giudizio per rispondere dei reati di cui in rubrica. (…) Sulla base del materiale probatorio complessivamente utilizzabile per effetto della scelta del rito, i fatti contestati a Fuoco Antonio possono essere ricostruiti nei termini che seguono.

Alle ore 15:35 circa del 15 febbraio 2017 il luogotenente *** e l’assistente capo *** della Polizia Municipale di Salerno si recavano, su disposizione della centrale operativa, in via G.B. Amendola, all’altezza del numero civico 84, dove era stata segnalata la morte di un cane avvenuta poco prima.

Sul posto, veniva rinvenuto tale ***, il quale mostrava a *** e ad *** una busta di plastica, adagiata in una scatola di cartone sul marciapiede, che conteneva i resti di un cane.

Giacché *** riferiva di aver appena assistito all’uccisione dell’animale ad opera di un uomo, veniva invitato a presentarsi presso gli uffici del Comando di Polizia Municipale per sporgere la eventuale denuncia.

Alle ore 16:30, pertanto, si provvedeva a raccogliere la denuncia di ***, il quale premetteva che verso le ore 15.00/15.15 circa di quel giorno, stava percorrendo la via Martiri di Cefalonia in compagnia di ***, quando aveva scorto un uomo dall’apparente età di 65 anni circa, con i capelli brizzolati e di corporatura tarchiata, che stava prendendo a calci un cane di piccola taglia da lui stesso tenuto al guinzaglio.

In conseguenza dei calci – continuava *** – il cane veniva sbalzato in avanti e proiettato in aria, e al contempo perdeva urina. Alla loro vista, però, l’uomo si era fermato per qualche attimo e questo aveva consentito al cane di liberarsi dalla presa, senza tuttavia che si allontanasse.

Proprio per questa ragione, l’uomo aveva ricominciato a prenderlo a calci, scaraventandolo nuovamente per aria e gridando in dialetto al suo indirizzo: “tu non hai capito, io ti ammazzo”.

A quel punto, *** e ***, credendo che l’aggressione al cane fosse finita, erano ritornati alla propria autovettura, parcheggiata poco indietro, ma ripassando, dopo non più di due minuti, per l’incrocio tra via Martiri di Cefalonia e via Sichelmanno avevano visto il cane a terra che ormai non si muoveva più e l’uomo che gli sferrava un altro calcio, poi gli toglieva il collare e infine si allontanava.

I due, allora, erano scesi dall’auto e si erano avvicinati all’animale, che era sanguinante e non dava segni di vita; peraltro, poco lontana c’era una ragazza, evidentemente testimone di quanto accaduto poco prima, che aveva uno sguardo atterrito.

Poco dopo, tuttavia, era ritornato l’uomo con due buste di plastica bianca e si era accostato al cane, mettendolo in uno dei sacchetti.

***, allora, aveva scattato cinque foto del cane, delle tracce di sangue che aveva lasciato e dell’uomo che lo aveva ripetutamente colpito (le immagini sono state allegate agli atti).

E mentre *** chiamava il 113, il denunciante aveva seguito e filmato l’uomo, che nel frattempo si era incamminato con il sacchetto in mano e che all’incrocio tra via S. Margherita e via G.B. Amendola si era disfatto del cane, abbandonandolo sul ciglio della strada.

Sentito poco dopo a sommarie informazioni, *** confermava sostanzialmente la ricostruzione dell’accaduto offerta in denuncia di ***.

Intanto, gli operanti della Polizia Municipale intervenuti sul posto richiedevano l’assistenza dell’ASL, che incaricava dell’ispezione dell’animale i veterinari *** e ***, i quali, verificando che il cane fosse sprovvisto di microchip, ne constatavano la morte per frattura alle ossa craniche.

In particolare, dalla relazione dei due dottori presenti agli atti risulta che il cane in questione fosse una femmina di razza meticcia e di piccola taglia, dall’età di circa un anno: la testa dell’animale era “imbrattata di sangue” e si evidenziava “un grave trauma cranico caratterizzato da vari frattura alle ossa craniche”.

La precisa identificazione dell’uomo descritto in denuncia avveniva il giorno successivo. Alle ore 8.30 circa del 16 febbraio, infatti, i tenenti *** e *** della Polizia Municipale di Salerno si riportavano nella zona dove si era verificata la morte del cane e mostravano ad alcuni abitanti del luogo la foto (scattata dal denunciante) della persona che l’aveva colpito con calci. In base alle indicazioni ricevute, essi risalivano a Fuoco Antonio, subito raggiunto presso la sua abitazione in via *** e invitato a portarsi presso il comando per la formale identificazione.

La individuazione di Fuoco Antonio veniva confermata il 6 marzo 2017 da *** e ***, ai quali la polizia giudiziaria mostrava un fascicolo composto da venticinque fotografie. Entrambi riconoscevano nella immagine contrassegnata dal numero 12, che ritraeva appunto l’odierno imputato, la persona che avevano visto il pomeriggio del precedente 15 febbraio prendere a calci il cane poi deceduto.

Nel frattempo, la Polizia Municipale assumeva sommarie informazioni anche da ***, convivente di Fuoco dal mese di ottobre del 2016.

La donna riferiva che l’imputato già in altre occasioni avevo usato violenza nei confronti del cane, chiamato Chicca, talvolta perché faceva la pipì in casa, talvolta perché l’uomo era nervoso per fatti suoi e sfogava la rabbia nei confronti del cane che “non era la causa della sua arrabbiatura”.

Aggiungeva la *** che, quando era rientrata a casa verso le 16.30 del 15 febbraio e non aveva trovato Chicca, aveva chiesto dove fosse a Fuoco e questi le aveva risposto che era morta, senza fornire ulteriori spiegazioni.

Quando, poi, a sera aveva visto su Facebook la foto del cagnolino morto ed aveva riconosciuto Chicca, la donna aveva capito che era stata uccisa dal suo convivente, anche perché nel pomeriggio le aveva detto di aver dato un calcio al cane per farlo camminare, provocando la fuoriuscita di un po’ di sangue dalla bocca.

Solo qualche giorno dopo – concludeva la *** – Fuoco aveva ammesso di essere stato lui a causare la morte di Chicca, aggiungendo “che non sapeva cosa gli aveva preso in quel momento”.

Anche nella lettera acquisita all’odierna udienza, indirizzata dall’imputato al tribunale, Fuoco, nel chiedere scusa per quello che lui stesso definisce “vile atto”, ribadiva di non riuscire a spiegarsi la ragione di quanto accaduto.

Alla luce delle complessive emergenze processuali appena riassunte, due dati di sicuro rilievo ai fini della ricostruzione del fatto possono darsi per provarli senza alcuna incertezza.

Il primo è che il pomeriggio del 15 febbraio 2017 Fuoco Antonio abbia ripetutamente colpito con calci il cane Chicca.

Lo hanno detto con dovizia di particolari *** e la loro denuncia trova riscontro sia nelle foto e nel filmato che essi hanno realizzato con prontezza subito dopo il fatto (dalle quali risultano, in particolare, tracce di sangue sul punto del marciapiede da cui l’imputato – pure ripreso nelle immagini – ha appena prelevato l’animale per introdurlo in una busta), sia nelle risultanze degli intervento immediato della Polizia Municipale (che rinviene il corpo senza vita del cane in circostanze di luogo e di tempo del tutto compatibili con la segnalazione di ***).

Peraltro, lo stesso Fuoco, dapprima con la sua convivente e poi nella lettera acquisita oggi, ha messo il fatto; e anzi, a proposito di quanto riferito dalla *** circa l’abituale atteggiamento tenuto dall’imputato verso Chicca, non v’è dubbio che quanto accaduto il 15 febbraio 2017 ben si inscriva in un contesto di comportamenti inutilmente violenti e rabbiosi nei confronti del cane, che denotano una concezione del rapporto tra uomo e animale di tipoproprietario (nell’ambito del quale non stona, come obiettato dal difensore, ma anzi si inquadra senza contraddizioni, il fatto che, a detta della ***, all’imputato in casa capitasse anche di coccolare Chicca, perché rivela che il cane fungeva strumentalmente da oggetto dei suoi stati d’animo, quelli positivi e quelli negativi).

Il secondo dato processualmente acquisito è che sussista un nesso causale tra l’azione posta in essere da Fuoco e la morte traumatica del cane.

L’affermazione, che si sarebbe già potuta legittimamente fondare sul fatto che Chicca sia morta subito dopo essere stata colpita dai calci dell’imputato, è confermato dall’esito dell’ispezione dei veterinari dell’ASL, i quali conclusero che la morte del cane era “certamente da ascriversi” ad “un grave trauma cranico caratterizzato dalla frattura alle ossa craniche”.

Peraltro, si trattava di trauma indubbiamente recentissimo – e, dunque, da ricondurre l’azione di Fuoco – in quanto all’esame dei veterinari “la testa appariva imbrattata di sangue”; quello stesso sangue che, del resto, si distingue ancora fresco nelle fotografie che *** scattò sulla strada subito dopo che l’imputato rimosse dal selciato il cane ormai privo di vita.

Ciò detto, la condotta conseguentemente attribuibile a Fuoco Antonio ha integrato innanzitutto il reato di cui all’art. 544 bis c.p., contestato nella prima parte dell’imputazione formulata dal pubblico ministero.

Non solo l’imputato ha senza dubbio cagionato, per le ragioni fin qui esposte, la morte di Chicca, ma lo ha fatto con modalità tali da urtare la sensibilità umana verso gli animali, ciò che costituisce in ultima analisi l’oggetto della tutela della fattispecie in questione.

Benché il legislatore abbia inserito in modo disgiuntivo nella norma i due requisiti ulteriori (rispetto alla morte dell’animale) che definiscono lilliceità della condotta tipica – ovvero che il fatto sia commesso con crudeltà e senza necessità” – e debba dunque ritenersi che basti per la configurabilità del reato la sussistenza di uno solo di essi, ciò nondimeno nel caso di specie luccisione del cane è avvenuta nel concorso di entrambi i detti requisiti.

Sotto questo profilo, può innanzitutto escludersi che il fatto sia stato commesso per necessità, ovvero in una situazione tale da avere indotto Fuoco ad uccidere il cane per evitare un pericolo imminente o per impedire l’aggravamento di un danno alla persona propria o altrui o ai propri beni (cfr. Cass. sez. III, n. 50329 del 28.11.2016; sez. III, n. 49672 del 30.10.2018).

Non solo Chicca non teneva alcun contegno offensivo o pericoloso nei confronti dell’imputato o di terzi, ma era anzi il bersaglio inerme della violenza di Fuoco, il quale, nel racconto dei testimoni, la scalciò ripetutamente in modo del tutto immotivato e seguitò a farlo nonostante l’animale gli si fosse riavvicinato docilmente in un momento in cui la sua aggressione sembrava essersi interrotta.

Questo consente di affermare, al tempo stesso, che l’uccisione del cane fu eseguita dall’imputato anche concrudeltà.

Le modalità della sua azione, infatti, furono particolarmente brutali e malvagie, in quanto Chicca fu più volte sbalzata in aria per effetto dei suoi calci, con forze ed intensità tali da causargli nel contempo anche una minzione incontrollata (non è dato sapersi se più per lo spavento o come conseguenza dei traumi causati dalle forte pedate). E l’azione dell’imputato fu spietata al punto tale da non fermarsi nemmeno dinanzi all’immagine, obiettivamente penosa, del cane che gli si accostava in modo remissivo, come se non potesse ricorrere ad altri che non fosse il suo padrone per ritrovare la protezione fino a quel momento negatagli.

La condotta dell’imputato ha integrato, in secondo luogo, anche il reato di maltrattamento di animali, contestato nella seconda parte dell’imputazione.

Per quanto detto dalla ***, Fuoco era solito esercitare violenza nei confronti del cane, anche senza alcun motivo che fosse direttamente riconducibile alla condotta di Chicca.

In questo modo, pertanto, egli inflisse all’animale sofferenze del tutto inutili e gratuite, che erano idonee a configurare un assoggettamento a sevizie, punito dall’art. 544 ter c.p.

Qui va solo aggiunto che le dichiarazioni rese dalla *** su questo aspetto della vicenda possono essere considerate del tutto attendibili, in quanto rese nel contesto di una deposizione per il resto prudente nei confronti dell’imputato, che ella definisce sostanzialmente come un uomo buono, a cui capitava anche di coccolare” Chicca.

Peraltro, la circostanza che la donna non abbia formalizzato nel processo il suo interesse, per esempio costituendosi parte civile, è un ulteriore indice della sua credibilità, in quanto denota un atteggiamento non certo animato da intenti vendicativi calunniatori nei confronti dell’imputato.

Per quanto fin qui detto, Fuoco Antonio, pertanto, deve essere dichiarato responsabile di entrambi i reati contestati, che possono essere unificati sotto il vincolo della continuazione, quale espressione di un medesimo disegno criminoso – ovvero, quello volto di infliggere al cane della *** un trattamento violento, fonte di inutili sofferenze – cui sono risultate funzionali le plurime violazioni di legge.

Quanto al conseguente trattamento sanzionatorio, è da escludersi innanzitutto – come richiesto in subordine dal suo difensore – che all’imputato possono essere riconosciute le circostanze attenuanti generiche, in ragione dei gravissimi (fra i quali finanche un omicidio volontario) e numerosissimi (Fuoco ha finora riportato ben 19 condanne) precedenti penali risultanti a suo carico, che devono intendersi quali indici della sua proclività nel delitto e, quindi, della sua pericolosità sociale; e, in ogni caso, non ravvisandosi nella vicenda in esame altre situazioni o circostanze tali da giustificare un intervento di riduzione sanzionatoria.

Anzi, deve farsi luogo, piuttosto, all’aumento di pena per la recidiva c.d. reiterata, giacché la reiterazione del delitto da parte dell’imputato, dopo la commissione di un così elevato numero di precedenti reati, appare espressione della persistenza di una spinta a delinquere e, quindi, di una perdurante inclinazione alla esecuzione di condotte illecite.

Il nuovo episodio delittuoso di cui si è reso colpevole Fuoco è senza dubbio concretamente significativo sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo (Cass. sez. VI, n. 34702 del 5.9.2008; sez. III, n. 19170 dell’8.5.2015).

Sotto questo aspetto, la sua condotta, come si è detto, si è connotata per particolare riprovevolezza, quale evidente espressione, in concreto, di una indole violenta e malvagia, che, dopo essersi negli anni diretta prevalentemente contro il genere umano (l’imputato annovera condanne per omicidio, violenza carnale, lesioni personali, resistenza a pubblico ufficiale, traffico di sostanze stupefacenti, etc.), adesso ha trovato modo di manifestarsi anche nei confronti degli animali: segno, questo, di una nient’affatto occasionale devianza, che può trovare pretesti pressoché innumerevoli di ripetersi nella vita quotidiana e che quindi deve essere stigmatizzata con un inasprimento sanzionatorio.

Di questi elementi, peraltro, occorre tener conto anche nella quantificazione della pena, che deve essere calcolata a partire da un valore prossimo al massimo edittale previsto per il più grave reato di cui all’art. 544 bis c.p.

Il fatto concreto, cioè, si colloca davvero al limite estremo verso l’alto del range sanzionatorio previsto dalla norma, e ciò in considerazione sia della gravità del reato, quale desumibile appunto dalle modalità efferate dell’azione e dalla natura irreversibile del danno cagionato, sia della personalità del reo, quale desumibile, oltre che dai già citati precedenti penali, anche dalla condotta dell’imputato susseguente al reato (rivelatrice di una particolare insensibilità, che lo ha indotto a trattare il cagnolino ormai morto alla stregua di un qualsiasi rifiuto urbano da smaltire clandestinamente).

Ne consegue che, alla stregua dei criteri previsti dall’articolo 133 c.p., è da ritenersi congrua alla pena di anni uno e mesi nove di reclusione (pena base per il reato più grave di cui all’art. 544 bis c.p.: anni uno e mesi otto di reclusione; aumentata della metà per la recidiva reiterata: anni due e mesi sei di reclusione; aumentata ex art. 81 cpv. c.p. di mesi uno e giorni quindici di reclusione per il reato di cui all’art. 544 ter c.p.: anni due, mesi sette e giorni quindici di reclusione; ridotta per il rito: anni uno e mesi nove di reclusione).

Dai reati commessi, inoltre, è derivato un ingiusto danno per le parti civili costituite, il fondamento della cui pretesa risarcitoria è stato già precisato nel provvedimento di parziale rigetto della richiesta della esclusione della loro costituzione, formulata dal difensore dell’imputato all’udienza dell’11 febbraio 2019.

Si tratta di associazioni che hanno lamentato di aver subito per effetto del reato un danno, consistente nell’offesa all’interesse di tutela degli animali da loro perseguito e previsto nei rispettivi statuti quale ragione istituzionale della propria esistenza ed azione, con la conseguenza che ogni attentato a tale interesse si configura come lesione di un diritto soggettivo inerente la personalità dell’ente (v. Cass. pen. sez. un., n. 38343 del 18.9.2014).

Anche nella giurisprudenza civile della Suprema Corte (v., da ultimo, Cass. civ. sez. III, n. 9662 del 19.04.2018), costituisce pacifica acquisizione la configurabilità di un danno non patrimoniale, nel più ampio significato di «danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica», anche in capo agli enti collettivi, sub specie di pregiudizi derivanti dalla lesione di diritti della personalità compatibili con l’assenza di fisicità quali il diritto all’esistenza, all’identità, al nome, alla reputazione, all’immagine. È stato evidenziato, in particolare, che danno non patrimoniale in capo all’ente collettivo, sub specie di danno all’immagine, può essere rappresentato dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’ente (nel che si esprime la sua immagine), sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dall’ente e, quindi, nell’agire dell’ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l’ente di norma interagisca.

Il danno non patrimoniale può essere liquidato in via equitativa nella misura di 1.000, 00 euro per ciascuna delle parti civili.

Da questo punto di vista, infatti, non sono stati forniti elementi specifici che giustifichino l’ammontare del pregiudizio subito, sicché la sua quantificazione può essere determinata secondo un prudente apprezzamento, tenendo conto sia dei connotati del caso concreto (la cui risonanza nell’opinione pubblica è attestata da diversi articoli di stampa che si trovano allegato al fascicolo delle indagini preliminari), sia dell’impegno a tutela degli animali che, in base a notizie di comune esperienza, le associazioni in questione profondono da tempo nel contesto storico e territoriale in cui sono stati commessi i fatti.

Deve essere rigettata, invece, la richiesta di provvisoria esecuzione della condanna al risarcimento del danno, non risultando, né essendo stati esplicitamente prospettati, i giustificati motivi previsti dall’art. 540 c.p.p.

Consegue, altresì, per legge la condanna dell’imputato in favore delle parti civili costituite alla rifusione delle spese di costituzione e difesa, che si liquidano in euro 1.050,00 ciascuno per i difensori delle associazioni Animalisti Italiani Onlus, DPA onlus, A.N.P.A.N.A., OIPA Italia Onlus, Lega Nazionale per la difesa del Cane, e in complessivi euro 2.310 per l’unico difensore delle associazioni “Dalle Zampe al Cuore – Associazione Zoofila Rocchese“Gli Invisibili di Mamma Anna“Associazione Zoofila Nocerina“Una zampa per amicoTi salvo con il cuore“Associazione 4 Zampe For Ever e “Qua la zampa.

Ai sensi dell’art. 110 comma 3 DPR 115/02, deve disporsi che il pagamento da parte dell’imputato delle spese in favore della parte civile A.N.P.A.N.A., ammessa al beneficio del patrocinio gratuito, avvenga in favore dello Stato. (…)

P.Q.M.

Visti gli artt. 438 e ss., 533 e 535 c.p.p.

dichiara

Fuoco Antonio responsabile dei reati a lui ascritti, unificati sotto il vincolo della continuazione e, calcolati l’aumento per la recidiva contestata nonché la diminuente per il rito prescelto, lo condanna alla pena di anni uno e mesi nove di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.

Visti gli artt. 438 e ss., 538 c.p.p.

condanna

Fuoco Antonio al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, che liquida in euro 1.000,00 per ciascuna di esse.

Visti gli artt. 438 e ss., 541 c.p.p.

condanna

Fuoco Antonio alla rifusione delle spese processuali sostenute dalle parti civili costituite, che liquida in euro 1050,00 ciascuno per i difensori delle associazioni Animalisti Italiani Onlus, DPA onlus, A.N.P.A.N.A., OIPA Italia Onlus, Lega Nazionale per la difesa del Cane, e in euro 2.310 per il difensore delle associazioni “Dalle Zampe al Cuore – Associazione Zoofila Rocchese“Gli Invisibili di Mamma Anna“Associazione Zoofila Nocerina“Una zampa per amicoTi salvo con il cuore“Associazione 4 Zampe For Ever e “Qua la zampa.

Visto l’art.110 DPR 115/02

dispone

che il pagamento delle spese processuali sostenute dalla parte civile A.N.P.A.N.A. ammessa al patrocinio gratuito, sia effettuato dall’imputato in favore dello Stato.

Visti gli artt. 438 e ss., 540 c.p.p.

rigetta

la richiesta di provvisoria esecuzione della condanna al risarcimento danni.

Salerno, 8.4.2019

Il GIUDICE

dott. Paolo Valiante

1 Commento

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  • Fatevi un controllo dal medico condannare il gesto, ma basta con questi cani avete rotto vagano dappertutto urinano dappertutto invadono le aiuole sono costretti a vivere in case anguste puzzolenti e cupe, basta, dite che sono essere umani allora pagate le tasse, assicurazione e vaccinazione per tutti i cani multe severe per chi porta il cane senza guinzaglio e lo fa defecare per strada, evitiamo di portarli in parchibdove giocano i bambini nei ristoranti nei bar…basta lasciateli vivere in libertà in case con guardino egoisti.. viva la libertà per gli animali tutti

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