Afro Napoli United, una squadra di calcio come risposta al razzismo

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“A realizzarsi non è soltanto il sogno di Maissa, ma anche il nostro. In un Paese che rischia una deriva xenofoba, significa che svolgiamo un argine al razzismo costruendo modelli di integrazione”. Pietro Spaccaforno, dirigente dell’Afro-Napoli United – “la seconda squadra di Napoli” – è palesemente emozionato. Non sta nella pelle: “Siamo commossi, lavoreremo duro per mandare altri giocatori in Serie A”.

In effetti la notizia è abbastanza clamorosa: un ragazzo senegalese, senza documenti fino a qualche mese fa, è stato appena ingaggiato dall’As Roma. Un giovane che nell’estate 2018, a 16 anni, ha lasciato il suo Paese e i suoi genitori sfidando quel Mediterraneo diventato per molti, troppi, un cimitero liquido. Su quel barcone destinazione Europa, con un groppo in gola e con gli occhi spaventati ma speranzosi, sognava di approdare in Italia. Nel suo Senegal aveva visto qualche partita di calcio, la sua immensa passione.

Desiderava la serie A. Ha per mito Kalidou Koulibaly, attuale difensore centrale del Napoli. Quella di Ndiaye Maissa Codou è una favola. E’ una di quelle storie che commuove e dà la forza per credere in un futuro migliore, per tutti: Maissa ha superato ostacoli e avversità ma, ora, è ufficialmente un calciatore dell’As Roma e avrà l’opportunità di giocare intanto con la Primavera, in un futuro prossimo probabilmente con i campioni della prima squadra.

Oltre che per le sue ovvie doti sportive ciò è stato reso possibile dal progetto dell’Afro-Napoli, una cooperativa dilettantistica sociale nata per la promozione dell’integrazione sociale attraverso lo sport. Una squadra che milita in Eccellenza, attualmente terza e con buone possibilità di salire in Serie D, che della lotta al razzismo ha fatto la propria bandiera. La società nasce nel 2009 in un bar nei pressi della stazione Garibaldi da un gruppo di persone interne al mondo del calcio e vogliose di ridare un senso nobile al pallone.

Prendono un campo a Mugnano, in periferia di Napoli, una zona difficile e piena di contraddizioni sociali, e lo intitolano alla memoria di Alberto Vallefuoco (vittima di camorra). Da subito costruiscono una squadra meticcia. Ad oggi è allenata da Salvatore Ambrosino, al suo terzo anno sulla panchina partenopea, ed è composta da giocatori provenienti da Ghana, Sierra Leone, Senegal, Argentina, Portogallo, Francia e, ovviamente, Italia. Un melting pot che ha prodotto ragazzi interessanti per il mondo del professionismo.

Ndiaye Maissa Codou è il quinto giocatore, il primo in Serie A italiana, finito nel calcio che conta: prima di lui, due sono approdati in Serie D, uno nella prima lega a Malta, e un quarto è un bomber del campionato algerino. Per i dirigenti dell’Afro-Napoli, lo sport è un potenziale strumento di aggregazione e di coesione sociale in grado di creare occasioni di interscambio tra soggetti appartenenti a culture differenti:

“Una pratica – scrivono sul sito della società – che permette di intervenire in contesti dove i processi di sviluppo sono ostacolati o rallentati da condizioni socioeconomiche difficili”. Lo sport diventa così un mezzo per integrare non soltanto nel mondo del pallone ma nella società.

“Amiamo il calcio, odiamo il razzismo”, scherza il dirigente Spaccaforno che ci racconta come, a volte, siano protagonisti di episodi di intolleranza. L’ultima volta? La settimana scorsa, in Coppa Italia, con l’arbitro costretto ad interrompere la partita per i buuu razzisti dei tifosi contro i giocatori dell’Afro-Napoli. Eppure, senza soldi né risorse ingenti, il progetto va avanti e col tempo si sta ingrandendo.

I ragazzi migranti, appena giunti, oltre ad una squadra di calcio, incontrano una nuova famiglia ed esperti in grado di seguirli ed orientarli anche dal punto di vista legale. Lo stesso Maissa Codou, giovane pare estremamente timido e serio, partito su un barcone dalla Libia è sbarcato a Lampedusa senza spiccicare una parola di italiano. Da lì è iniziato il suo iter tra vari centri di accoglienza per minori finché ha preso un treno destinazione Napoli.
Un talent scout dell’Afro Napoli ha avuto il merito di vederlo giocare, una volta, intuendo il suo talento calcistico. Il ragazzo (come tanti altri) è stato adottato dal progetto che fornisce, per i propri tesserati, anche assistenza e posto letto. Pietro Varriale, il direttore sportivo dell’Afro-Napoli, è colui che più ha trascorso il tempo con Maissa aiutandolo nella giugla della burocrazia italiana: è riuscito prima ad iscriverlo a scuola, poi a fargli avere i documenti in regola, infine – lo scoglio più duro – a tesserarlo con quella FGIC che ha rappresentato un vero ostacolo.

“La burocrazia sportiva gli ha impedito di giocare per diversi mesi, ma noi abbiamo fatto di tutto per consentirgli il trasferimento alla Roma”, spiega oggi Varriale sottolineando come serva un nuovo regolamento per agevolare chi gioca a calcio. Poi racconta un aneddoto carino su Maissa: “Stava sempre a casa mia a giocare alla play-station con mio figlio di 10 anni!”.

Anche Napoli, Juventus e Benevento erano sul giocatore ma la Roma è quella che più ha creduto in lui. Una vicenda che dimostra come il calcio non sia solo business, scontri, razzismo e saluti romani sugli spalti. “Per noi è stato un piacere, speriamo di poter regalare altre storie come questa al calcio professionistico” dicono i dirigenti dell’Afro-Napoli. Una piccola realtà che resiste e rappresenta un faro contro l’oscurantismo e il peggior razzismo nella società.
Fonte espresso.repubblica.it

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