I frammenti del Muro di Berlino (di Cosimo Risi)

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Dopo l’unificazione tedesca e il crollo dell’Unione Sovietica la storia sembra finita con la fine della guerra fredda. L’Occidente vince sul piano politico e ideale. Il libero mercato si afferma ovunque, persino in Russia che dell’URSS è l’erede principale. La democrazia rappresentativa, racchiusa nella parola d’ordine “rule of law”, conquista i paesi già del campo socialista. Si gira  un copione a lieto fine, degno delle pellicole hollywoodiane d’una volta.

Fra il 2004 e il 2007 si consuma il big bang delle adesioni simultanee di dodici nuovi stati membri, tutti quelli già di influenza sovietica salvo Cipro e Malta. Le due isole aderiscono per ragioni geo-politiche, sul piano economico e istituzionale non hanno un passato da emendare.

A distanza di quindici anni l’happy end tarda a manifestarsi. I venti del nazionalismo, oggi detto sovranismo, spirano negli stati membri di nuova adesione. La mappa è variegata. La crescita di Polonia, Ungheria, Cechia (i tre principali attori del Gruppo di Visegrad) è notevole, supera persino la crisi finanziaria che attanaglia il resto dell’Unione. Le percentuali oscillano fra il 2 e il 4% all’anno, parte del PIL è dovuto all’arrivo dei fondi strutturali con le politiche di coesione messe in campo da Bruxelles per facilitare l’assimilazione.

In politica la gratitudine non è una dote, conta l’interesse nazionale. Questo è il credo che viene dagli stati membri interessati. Il punto di svolta è dato dalla decisione della Commissione (2015) di riallocare d’autorità un certo numero di profughi presso tutti gli stati membri, così sgravando quelli di primo impatto (Grecia e Italia sul Mediterraneo, Germania in quanto destinazione finale).

L’afflusso di stranieri, di religione se non di etnia diversa, rianima il sentimento nazionale: quella fede nella sovranità che si era assopita con l’euforia dell’adesione e della prestazione economica. L’adesione all’UE è percepita come tutela delle sovranità riacquistate dopo il dominio sovietico: e cioè in senso opposto allo spirito originario.

Le Comunità europee nacquero nei Cinquanta (il primo atto fu la Dichiarazione Schuman del 1950) proprio per combattere i nazionalismi, che erano ritenuti da politici e intellettuali illuminati la causa primigenia dei conflitti.

I precedenti filosofici erano illustri. Basti citare il libretto di Immanuel Kant “Per la pace perpetua” e le riflessioni di Albert Einstein nel carteggio con Sigmund Freud. Tre giganti del pensiero che in epoche diverse (Kant a fine Settecento, Einstein e Freud fra le due Guerre mondiali) attribuiscono la voglia di nazionalismo alla sovranità assoluta degli stati. Questa porta al protezionismo economico fino allo stato di belligeranza per conquistare spazi territoriali e commerciali.

Se si aggiunge l’elaborazione sulla superiorità di certe razze su altre, il precipitare  della civiltà europea verso il baratro è ineluttabile. Il discorso non va mai in archivio. I  rigurgiti si avvertono anche in Italia e Germania, malgrado che i due paesi fossero i protagonisti  di quella stagione.

Si dirà che gli stati membri orientali sono distanti da certe derive. Il che è vero. I partiti al potere fanno riferimento al PPE,  il cui europeismo è di lunga lena. Si dirà che i morsi della crisi si avvertono ovunque e che il timore dell’altro è arduo da fugare anche per i benintenzionati. Anche questo è vero.

Pur tuttavia le pulsioni sovraniste si diffondono, fanno leva su sentimenti comuni, predicano la scorciatoia di soluzioni semplici a problemi complessi. La chiave sta nel rifiutare l’articolazione delle relazioni internazionali per vagheggiare un passato immaginato ad arte.

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