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Il funerale della presunzione di non colpevolezza (di G. Fauceglia)

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Il primo gennaio del nuovo anno, con l’entrata in vigore della norma sulla prescrizione nel giudizio penale, è stato celebrato, da personaggi improbabili ed inconsapevoli delle loro azioni e del loro dire,  il funerale della presunzione di non colpevolezza dettata nella Costituzione italiana.

La normativa voluta dal populismo giustizialista è il frutto di un movimento che è iniziato già diversi anni addietro, favorito da un certo atteggiamento ideologico di una parte della scolorita sinistra italiana (ad eccezione di pochi autorevoli politici che, non a caso, erano espressione della parte “più nobile” del PCI,  come  Macaluso o Pellegrino, insensibili alle sirene dei giudici militanti), finalizzato alla completa penalizzazione della società italiana e all’affermazione di un panpenalismo, che ormai soffoca le dinamiche dell’economia e del vivere civile, senza offrire alcun rimedio ai mali che intenderebbe combattere.

I Paesi più moderni, quelli meno influenzati dal sentimento ormai diffuso dell’ “invidia sociale”, hanno ormai acquisito la consapevolezza che la corruzione e il malaffare possono essere sconfitti solo da efficienti e semplici normative amministrative, ben lontane, ad esempio, dalla burocratizzazione senza responsabilità che caratterizza l’attuale impianto della disciplina, complessa e contraddittoria, degli appalti pubblici, nonché da più efficienti sanzioni economico-patrimoniali (magari rafforzando il ruolo e l’organico della magistratura contabile).

In sostanza, più semplice e chiara è la normativa, più terreno è  sottratto alla discrezionalità della pubblica amministrazione, laddove si annida il germe della corruzione.

La classe politica italiana, sin dai primi anni Novanta dello scorso secolo, non ha inteso contrastare il rovesciamento dei rapporti di forza fra il c.d. potere giudiziario (che la Costituzione, non a caso, definisce “ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”, art. 104 Cost.”), che è ormai diventato vero e proprio potere politico, e i veri “poteri” ovvero gli organi politici a rilevanza costituzionale, quali il Parlamento e il Governo.

La ricerca di un equilibrio tra potere politico e ordine giudiziario non è stato favorito dal conflitto di interessi che ha caratterizzato la vita politica degli ultimi decenni, dall’arretramento ( se non dalla scomparsa) dei partiti politici tradizionali con la prevalenza di leaderschip personali, dall’affermazione  crescente di movimenti nati sul “nulla”, se non sul risentimento dei più verso una classe politica ritenuta (a volte ingiustificatamente) inefficiente o corrotta.

Così i cantori della presunta purezza del ruolo della magistratura penale hanno imposto una legislazione che stravolge i principi del giusto processo e della presunzione di innocenza (frutto della centenaria elaborazione dell’illuminismo giuridico), a danno anche degli interessi dell’economia e del lavoro, posto che nessun investitore estero vorrà da oggi correre il rischio di investire nel nostro Paese per essere invischiato in un processo penale senza fine.

Non a caso, il prossimo risultato che gli inconsapevoli cantori della giustizia penale si propongono è quello, addirittura, di eliminare l’appello, magari ingolfandolo con varie e sempre fantasiose ipotesi di  inammissibilità o di improponibilità.

Per ottenere, però, un equilibrio tra “ordine” giudiziario e poteri politici sarebbe necessario un elettorato avvertito e consapevole dei problemi e un “personale” politico ben diverso dagli inconsapevoli soggetti che oggi si trovano, per caso e per fortuna, ad occupare gli scranni parlamentari, che non intendono abbandonare per loro ben evidenti personali interessi.

Ciò richiederebbe, da una parte, alla politica di non interferire sull’attività della magistratura, e, dall’altra, all’ordine giudiziario di evitare – come avviene in ogni Stato di diritto – che qualche magistrato inquirente, in assenza di qualsiasi responsabilità,  apra di continuo inchieste che investono apparati importanti dello Stato, in assenza magari di prove evidenti e con il risultato di arrecare danni irreparabili agli interessi del Paese, senza che il grande clamore mediatico si traduca, poi, in sentenze di colpevolezza.

Questo, però, rimane il sogno dei pochi che credono ancora nel valore dei principi costituzionali (richiamati dalle vestali del pangiurisdizionalismo penale a proprio esclusivo piacimento), e che vedono il Paese ormai scivolare verso una  forma di vero e proprio autoritarismo giudiziario, sottratto da ogni controllo e affidato all’inanità di un Parlamento, che ha perduto la sua antica autorevolezza.

Giuseppe Fauceglia

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