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Brexit: un addio o un arrivederci? (di Cosimo Risi)

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Nella stessa seduta, a testimoniare la sua rilevanza che i sovranisti contestano, il Parlamento europeo anima due grandi eventi. Il discorso, con applausi in piedi, della Senatrice Liliana Segre, d’ora in avanti l’apologo della farfalla che vola sopra agli steccati. Il voto finale sul recesso del Regno Unito e la conseguente uscita dei parlamentari britannici.

Il primo desta commozione per i fatti narrati da chi li ha vissuti e li ricorda per noi con immaginabile sofferenza. Il secondo  desta amarezza. Il recesso del Regno Unito  è voluto dagli elettori che, in stretta maggioranza, così votarono nel referendum 2016. Fra gli accaniti Brexiters alcuni parlamentari che oggi si drappeggiano nell’Union Jack della ritrovata sovranità.

Vi è un che di beffardo nella soddisfazione di Nigel Farage che, fino all’ultimo, ha goduto dei vantaggi dello status parlamentare per svuotare l’istituzione dall’interno con un lavorio, di triste successo, di screditamento della stessa. La propaganda anti-europea ha raggiunto livelli di crassa ignoranza per chi l’ascolta e di maliziosa deformazione per chi la produce.

Anzitutto che Londra abbia ceduto troppi poteri a Bruxelles, colpevole al solito di normare sulla dimensione delle cozze. Un ratto delle Sabine post litteram, quasi che l’invincibile armata del Berlaymont abbia marciato su Downing Street per porvi la bandiera a stelle. Il paradosso è che i Conservatori sono divenuti i Brexiters per eccellenza dopo aver aderito alla Comunità grazie al loro Primo Ministro Edward Heath negli anni settanta. Il loro Premier dovette attendere il via libera della Francia, finché il Generale de Gaulle, che si opponeva all’adesione, all’Eliseo lasciò il posto a Pompidou.

La storia del rapporto fra Londra e Bruxelles è di un connubio senza amore. Il fastidio della delegazione britannica verso i colleghi degli altri stati membri, l’insofferenza delle altre delegazioni verso i colleghi britannici.

I ricordi di delegato italiano al Consiglio sono di cordiale divergenza con loro. Non vi era proposta della Commissione, per quanto sostenuta da una larga maggioranza, che non dovesse fare i conti con i loro distinguo. I distinguo potevano trasformarsi in riserve aperte, per superare le quali la presidenza di turno doveva escogitare compromessi per ricamare una posizione che ne tenesse conto.

Molti vuoti d’immagine dell’Unione sono dovuti alla presentazione di testi claudicanti per recepire le posizioni britanniche. Si pensi soltanto al tema delle risorse proprie del bilancio europeo o alla politica estera e di sicurezza.

Sempre e solo problematica la presenza del Regno Unito in Europa? Certamente no. A Londra si deve la diffusione dell’inglese come lingua veicolare. Può non piacere il regime di fatto mono-linguistico, ma è stato un elemento di coesione. Parlarsi e scriversi nella stessa lingua facilita i rapporti personali e con loro i rapporti diplomatici. Il francese tornerà ad essere lingua veicolare come fino agli Ottanta? O l’inglese resterà lingua franca essendo la più diffusa presso gli europei non anglofoni?

Si devono ai Britannici le iniezioni di pragmatismo: la semplificazione normativa all’insegna delle buone pratiche. Si riconosce loro l’uso di mondo, che viene dall’avere metabolizzato secoli di imperialismo e sussidiarietà. The Global Britain è potenzialmente nelle loro corde.

Ora si tratta di lavorare sui futuri rapporti fra Unione e Regno Unito, sempre che tale resti dopo i proclami indipendentisti della Scozia. A fine 2020 ne conosceremo l’assetto, nel frattempo funzionano le regole vigenti, compresa la libera circolazione delle persone.

di Cosimo Risi

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