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L’economia al tempo del coronavirus (di Giuseppe Fauceglia)

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Ancora non siamo in grado di conoscere, di fronte a questa crisi sistemica, per quanto tempo riuscirà a resistere la nostra economia, che trova il suo alimento in molti bisogni indotti proprio dalla vita di relazione (quella che opportunamente oggi risulta vietata): in sostanza, se non vi è “circolazione” della ricchezza, non c’è produzione di beni o di servizi.

In questo quadro fa eccezione il sistema della distribuzione agro-alimentare, il cui surplus, derivante dalla chiusura forzata di ristoranti ed altri esercizi pubblici, è dirottato verso i supermercati e le altre strutture di vendita, e ciò nella speranza che la produzione possa reggere agli eventi, non ultimi quelli climatici, che stanno mettendo a rischio  le colture.

Il nostro sistema si regge non tanto sulla moltitudine dei lavoratori dipendenti pubblici che in ogni caso a fine mese vedono assicurata  la percezione del reddito, e, sia pure in misura minore, sui pensionati (moltissimi dei quali percepiscono pensioni sociali o al limite dell’autosufficienza), ma sul tessuto produttivo di milioni di piccole e medie imprese che danno lavoro a milioni di lavoratori privati, che non godono né i diritti (direi, i privilegi) né la stabilità dei dipendenti pubblici.

Inoltre, vi sono milioni di lavoratori autonomi e partite Iva che, a loro volta, non solo autoproducono il proprio reddito, ma danno lavoro a centinaia di migliaia di dipendenti (es. segretarie, collaboratori, prestatori di servizi ausiliari e complementari).

Bisogna, allora, chiedersi se i recenti provvedimenti del Governo (che, sinteticamente, vanno sotto il nome di “Salva Italia”) possono, sia pure in una prospettiva emergenziale e non sistemica, offrire una risposta concreta all’esigenza primaria di salvaguardare, innanzi tutto, i posti di lavoro e le minime fonti di reddito.

Orbene, per quanto riguarda la Cassa integrazione “speciale ed eccezionale”, nonostante la evidente complessità del meccanismo di richiesta e di concessione, la risposta sembra in linea con la tradizione giuslavoristica della normativa di sostegno (ordinario e/o speciale); mentre assolutamente “sclerotica”, se non incerta nella sua stessa configurazione, resta la disciplina del sostegno del reddito da lavoro (anche questo ricompreso nella definizione cassa integrazione) per le imprese (ivi compresi i lavoratori autonomi) presso cui sono occupati un numero minimo di dipendenti, sino a giungere all’unità.

In questo caso, il meccanismo prevede l’intervento primario delle Regioni, cui conseguirebbero tempi indeterminati e senza limiti (del resto, ho sempre pensato che in queste ipotesi i termini sono “canzonatori” e non “ordinatori”) nella definizione delle pratiche e nell’erogazione del contributo per il singolo lavoratore.

Nessuno si domanda come faranno questi dipendenti a sopravvivere nel tempo (biblico) impiegato dagli efficienti (sic !) uffici regionali per “sbrigare la pratica”; forse sarebbe stato più opportuno introdurre un meccanismo di “autocertificazione” (accompagnata da significative sanzioni erariali) del professionista o del datore di lavoro, accompagnato dalla produzione dei moduli di pagamento (sempre “tracciati”) antecedenti di almeno tre mesi al 1°.2.2020.

Ma così è !! Assolutamente pazzesca è la previsione del sostegno a favore dei liberi professionisti (l’impegno di spesa mensile è inferiore a quello del reddito di cittadinanza, distribuito a pioggia anche tra contrabbandieri, spacciatori, delinquenti abituali di ogni specie e truffatori, come dimostrano indagini recenti): il sostegno esclude i liberi professionisti che risultano iscritti nelle Casse di previdenza professionale, e non viene prevista, come pure sarebbe stato logico, una eccezione per quei giovani che risultano iscritti nelle casse da meno di cinque anni. Nel mentre, tutte le Casse di previdenza professionale hanno escluso ogni ipotesi di intervento di sostegno, ritenendolo estraneo alle finalità previdenziali e/o pensionistiche.

E’ chiaro il tentativo di distruggere definitivamente le libere professioni, mortificando i giovani, mentre, nello stesso momento, si dilapidano 600 milioni di euro per Alitalia, ben sapendo che tale spesa è inutile per una altrettanto inutile compagnia c.d. di bandiera (buona soltanto per assicurare milioni di euro ad amministratori inefficienti ed incapaci, nominati dalla “politica”).

La formulazione delle norme, che dimostrano una vera e propria “ignoranza” manifesta, non possono essere in questa sede sottoposte a critica, ma si vuole evidenziare che, nonostante la propaganda martellante, questo Governo, anche dal punto di vista tecnico-legislativo, non sembra all’altezza della gravità della situazione, e pare affidarsi più ai presunti tecnici della comunicazione (tal Casalino) che ai tecnici (quelli veri, non quelli raccolti per strada) della legislazione. Noi poveri mortali, che qualche libro lo abbiamo letto e pure qualche norma abbiamo contribuito a scriverla, speriamo solo nella Provvidenza.

Giuseppe Fauceglia

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