Sequestro e liberazione della cooperante (di Cosimo Risi)

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Silvia Romano è rientrata in Italia da una settimana e le discussioni imperversano. Durante il lungo sequestro si moltiplicavano gli appelli alle autorità perché si sbrigassero, affiorava il dubbio che non facessero abbastanza, come se prendere contatti con i sequestratori, per loro natura sfuggenti, equivalesse allo scambiarsi messaggini per l’ora dell’aperitivo. Allora l’aperitivo si poteva consumare liberamente.

Poi l’accoglienza a Ciampino, l’aereo con le insegne della Repubblica deposita la cooperante,  le autorità schierate a debita distanza di mascherina e poi a  scambiare con lei il tocco di gomito, nel gesto politicamente corretto da reclusione. Ovvero lockdown, per usare l’inglese al posto dell’italiano, dismesso al pari dell’accortezza che vorrebbe che certi affari  siano  trattati nel riserbo.

Si attribuisce a Giulio Andreotti la dichiarazione che i servizi segreti o sono segreti o è meglio non  averli. La frase è finita nel libro degli aneddoti, forse apocrifi o forse no.

Colpisce della cooperante, e della famiglia,  che non pronuncia parole di ringraziamento all’Italia, ricorda le condizioni tutto sommato decenti in cui ha trascorso la prigionia,  veste l’abito tradizionale delle convertite. Altri ostaggi abbracciarono la religione del posto, lei ne esibisce i segni esteriori.

Una volta a casa, ha parole di riconoscimento per la reazione della comunità musulmana locale, un suo esponente in verità si riserva il giudizio sulla conversione. Aspetta che la giovane si ristabilisca dal comprensibile sgomento da rapimento, reclusione, liberazione. Una prova grave  per qualsiasi persona, sconvolgente per una cooperante, andata in Kenya con le migliori intenzioni e non di mettersi a repentaglio.

Certi media si distinguono per grettezza. Vogliono che coi soldi del presunto riscatto, e delle spese connesse alle indagini e al rimpatrio, si sarebbe pagata la cassa integrazione a un certo numero di disoccupati da COVID. Operai contro cooperanti, nella riedizione social della guerra fra poveri.

Altri evidenziano che l’aiuto dei servizi turchi sarebbe peloso. Per non parlare di quelli del Qatar, un Emirato che per trovarsi nel Golfo alimenta qualsiasi speculazione.

La collaborazione fra i servizi non dovrebbe destare meraviglia, sarebbe insolito il contrario. E poi la Turchia è membro NATO e aspirante membro UE, per quanto si possa dissentire da certe sue politiche, il suo status non cambia.

Col Qatar resta un’antica consuetudine di rapporti. Fu la rete televisiva Al – Jazeera che ci fece conoscere la sorte di un prigioniero italiano in Iraq nel 2004. Per non parlare della convergenza di interessi in Libia e altrove.

Diverso è il discorso circa l’opportunità delle trattative nei casi di sequestro. Il paragone con la normativa italiana, che le vieta bloccando i beni delle famiglie dei sequestrati, può essere adoperato a titolo indicativo, non si attaglia alla casistica internazionale, a trattare, se si decide di trattare, non è la famiglia ma lo stato. Il che implica una valutazione di ordine politico oltre che morale. E soprattutto l’applicazione di una regola generale: non si può intervenire per alcuni e trascurare altri.

Alcuni stati accedono alle trattative ritenendo la salvezza dell’ostaggio preminente sull’interesse pubblico di non riconoscere legittimità  ai sequestratori. Sono molti i paesi a comportarsi in questo modo, eventualmente tengono il profilo basso fino a negare l’esistenza d’una trattativa e il cedimento alle pretese. Persino gli stati ufficialmente irriducibili a questa logica, a volte trattano sotto copertura. Il silenzio è la regola aurea.

di Cosimo Risi

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