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Il reddito di cittadinanza nel periodo del Coronavirus (di G. Fauceglia)

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Qualche lettore ha svolto alcune osservazioni alle critiche da me rivolte al reddito di cittadinanza, o, meglio, alle modalità con cui questo è stato realizzato in Italia e all’assenza, per un gran numero di percettori, dei requisiti richiesti dalla legge (come emerso da alcuni articoli di stampa).

Preciso subito che le mie critiche non si rivolgono alle politiche di inclusione sociale, per altro previste dalla Carta Fondamentale dell’Unione Europea e introdotte in altri Stati dell’Unione, quanto alla specifica misura introdotta in Italia, che è subito apparsa propagandistica.

Invero, nel nostro Paese già era stato previsto un reddito di inclusione sociale, introdotto dal Governo Gentiloni, per cui sarebbe stato sufficiente un ampliamento della platea degli aventi diritto, ma il risultato così ottenuto non avrebbe risposto alla “fame” di pura propaganda elettorale, dappoi manifestata con la trionfale apparizione sul balcone di Palazzo Chigi dell’on. Di Maio.

Qualche lettore ha rappresentato che anche in altri Paesi europei è stato previsto un reddito (in parte) simile a quello italiano, omettendo, però, di considerare che in Germania, dove esiste il c.d. Hartz IV (già introdotto nel 2005), la sinistra radicale della Linke e i Verdi stanno proponendo una profonda revisione della misura, ritenuta una “vera e propria trappola di povertà”.

In sostanza, è stato evidenziato come, nonostante i circa 100.000 impiegati dell’Agenzia Federale per l’Impiego, più del 40% degli iscritti al programma sociale, ovvero disoccupati da oltre due anni che non percepiscono più la relativa indennità, o persone con fragilità sociale, non trova normalmente un impiego, nonostante l’evidente calo della disoccupazione. In sostanza, è stato verificato che il reddito non è efficace nel suo prevalente scopo, che risiede nel collocare i percettori sul mercato del lavoro.

Orbene, il reddito di cittadinanza in Italia è stato concepito come integrazione dei redditi familiari, associato ad un percorso di reinserimento lavorativo e di inclusione sociale, di cui i beneficiari restano protagonisti, sottoscrivendo un Patto per il Lavoro o un Patto per l’inclusione sociale.

La percezione del reddito ha come scadenza il settembre 2020, dappoi slittata a seguito del Covid-19, con una possibilità di rinnovo per altri diciotto mesi, in costanza del possesso dei medesimi requisiti richiesti per l’accesso, ma, pur escludendo la legge un rinnovo automatico, è facile prevedere un ampliamento dei termini per il godimento dei benefici.

Non mi pare, però, che,  ad oggi, sia stato trovato un impiego ai percettori del reddito, nonostante qualche offerta di impiego, prontamente rinunciata dal beneficiario. Per cui, il risultato resta di tipo meramente assistenziale ( e duraturo) senza alcun effettivo impatto sulle dinamiche del mercato del lavoro.

Proprio in tempo di pandemia, mi chiedo se non sia possibile utilizzare, anche per il tempo connesso alla percezione del reddito, questi soggetti in qualche programma di utilità sociale (come la manutenzione ordinaria degli edifici scolastici). E’ evidente, però, che questa, pur logica opzione, minerebbe il consenso sociale delle forze che sorreggono il Governo.

Mi chiedo, però, se in una situazione di così grave sofferenza per l’apparato produttivo e per le imprese – che restano il vero volano della ripresa economica – possano essere così facilmente sopportate misure di puro assistenzialismo (gravanti sulla crescita del debito pubblico), che non presentano in sostanza alcuna utilità in termini di inclusione o di occupazione dei soggetti ritenuti svantaggiati, né di salvaguardia di una delle maggiori strutture manifatturiere dell’ Europa, qual è quella italiana per ora seconda solo a quella tedesca. In sostanza, proprio gli effetti della pandemia avrebbe dovuto rappresentare un’occasione per “ripensare” alle caratteristiche dello Stato sociale e alle misure idonee al superamento delle povertà (quelle vere e non quelle “finte” !) e delle diseguaglianze.

Il problema si configura ancora più urgente ed indifferibile a fronte dei molteplici “interventi a pioggia” (contributi di varia natura, promessi o erogati dal Governo), che, limitati nel tempo, non restano idonei alla ripresa produttiva.

Il quadro si complica in relazione agli interventi dell’Unione (cosiddetti Recovery Fund) e alle altre misure di sostegno alle economie interessate dagli effetti della pandemia, proprio perché l’attribuzione di tali aiuti comunitari è finalizzata alle riforme della pubblica amministrazione, allo sviluppo dell’ “economia verde”, agli interventi nel settore della sanità e dell’educazione (scuola e università), e non già ad essere utilizzati come mera misura assistenziale.

Si tratta di investire sovvenzioni a fondo perduto e prestiti nello sviluppo dell’Italia, che finora ha clamorosamente mancato la riconciliazione tra Nord e Sud del Paese, anche perché – a differenza di Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia – ha troppo spesso sprecato i fondi strutturali dell’Unione Europea.

E’ evidente che ciò richiede una visione strategica del Paese, un chiaro progetto per la ripartenza e la ripresa, smentendo gli evidenti errori di gestione e programmazione del futuro, che hanno caratterizzato l’operato dei nostri Governi, e, purtroppo, dell’attuale in particolare (un tentativo di programmazione era, invece, stato tentato dal precedente Governo Gentiloni). Bisogna, in sostanza, essere consapevoli dell’avvertenza che ci proviene dalla stessa Commissione Europea, cioè che “non dovrà essere premiata la spesa corrente a danno degli investimenti”.

Ma il monito, sempre per l’affermarsi di pure esigenze di propaganda, verrà facilmente smentito, con irrimediabili danni sul futuro delle giovani generazioni, che potranno finanche essere chiamate, a rispondere per la restituzione dei circa 150 miliardi di euro messi a disposizione dell’Unione, qualora gli stessi non venissero effettivamente impiegati negli scopi indicati.

Giuseppe Fauceglia

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