Scuola, basta la mascherina. L’ira dei presidi: «Siamo alle comiche»

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Dietrofront sul distanziamento a scuola: se le aule in più non ci sono, potrà bastare una semplice mascherina chirurgica. Dopo settimane e mesi a parlare di distanziamento e nuovi banchi per garantirlo, ecco la retromarcia del Comitato tecnico scientifico (Cts).

I presidi dovranno, ad esempio, sistemare i banchi a due posti facendo posizionare gli alunni da lato corto, quindi uno di fronte all’altro, invitando gli alunni a lavarsi le mani e inducendo gli insegnanti ad areare i locali. Il nuovo anno scolastico non è ancora cominciato e le contraddizioni si accavallano. Se è sufficiente indossare la mascherina in classe, di che cosa abbiamo parlato finora?

Molti dirigenti si sentono presi in giro, la vivono come una mancanza di rispetto. A questo punto invito tutti i colleghi ad andare in ferie finalmente, le hanno meritate dopo il lavoro frenetico di un’estate che sembrava tragica e invece era solo comica

La mascherina sul viso sarà sufficiente, ma sarà anche un’impresa farla tenere a tutti i ragazzi per 4, 5 ore se non 8 nel caso del tempo pieno. Un incubo per chi dovrà far rispettare la regola. Anche perché, senza le precauzioni basilari, i contagi riprenderanno vigore proprio come sta accadendo tra i giovani negli assembramenti estivi.

8 Commenti

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  • pur di far riaprire ste maledette scuole. Incredibile….Presidi ribbellatevi…lo sapete che tutto cadrà su di voi soprattutto le denunce penali? Ma molti di voi sono troppo leccalecca per farlo o sbaglio?Il covid uccide anche i bambini non lo dimenticate mai

  • Conviene ritornare per un attimo con la mente al lockdown, quando si parlava di questa nostra estate. Delle cupole di plexiglas sotto le quali avremmo preso il sole come rettili in una teca. Dei bagni in mare scrutati da guardiani. Di lettini a tempo, così distanti l’uno dall’altro da dover comunicare per telefono. Ora sappiamo che quella distopia non si è prodotta, e non perché le precauzioni siano diventate a un tratto superflue, ma perché quelle proposte erano per lo più delle idiozie.
    E tuttavia, l’estate è iniziata su presupposti pericolosi. In un momento di prostrazione inedita per il Paese, tutti noi ancora scossi dallo spavento di marzo e aprile, certi messaggi hanno contribuito a diffondere su larga scala un’illusione confortevole di immunità. La malattia che non esisteva più «clinicamente», il dato giornaliero dei nuovi contagi che non era «mai stato così basso da marzo», anzi da febbraio, ed ecco che segnava un altro minimo record: se molte delle affermazioni erano formalmente corrette, il modo di comunicarle è stato quanto meno incauto, perché non teneva in conto la nostra fragilità eccezionale, quanto fossimo pronti ad aggrapparci a ciò che volevamo ascoltare. Si è fatta spazio l’idea che fosse il meccanismo intrinseco del contagio a essere cambiato, magari il virus stesso per una sua mutazione, che il miglioramento non fosse dovuto, semmai, al mutare del contesto intorno al virus, alle imposizioni e alle nostre accortezze, alla maggiore organizzazione del sistema. In una parola: ai sacrifici.
    La responsabilità non funziona troppo bene come atto volontario. La responsabilità, soprattutto quella condivisa, è un clima. Difficile da creare e molto facile da disperdere. A un certo punto la curva della nostra responsabilità ha cambiato andamento, ha invertito la concavità. E noi siamo partiti per le vacanze.
    Ma adesso anche la curva dei contagi ha cambiato concavità. Dopo essere stata a lungo rivolta verso il basso, punta di nuovo in su. Chi presta attenzione al bollettino se n’è accorto istintivamente. Chi tiene ancora d’occhio il grafico l’ha visto nella coda che si solleva appena. E chi non trovasse convincenti le considerazioni qualitative (non lo sono, convincenti) può prendere in esame l’andamento delle ospedalizzazioni in Veneto. La Regione Veneto ha infatti il merito di fornire il dato dei nuovi ricoveri corretto rispetto alla settimana di evento, al netto cioè di degenze e dimissioni. Ci mostra il flusso effettivo dei nuovi pazienti. Il trend è di crescita anche lì.
    L’obiezione immediata è che i numeri assoluti restano bassi, perché parlarne quindi? Ma se in un’epidemia i numeri assoluti sono importanti, lo sono ancora di più le pendenze, le derivate prime e seconde. Allora ricomincia? Non è esatto neppure questo. Le condizioni al contorno sono cambiate dalla primavera, esiste oggi un apparato pubblico intero per il contenimento del Covid, avrà le sue falle, ma c’è. Pensare di ritrovarsi all’improvviso ad aprile, barricati in casa con gli ospedali che traboccano e la farina esaurita nei supermercati, sarebbe pura suggestione, l’ennesima mancanza di fantasia in questo strano contesto, la prova di come siamo portati a ragionare binariamente. O l’emergenza acuta o nessuna emergenza, il confino oppure la libertà senza freni, quando la disposizione mentale adeguata sarebbe intermedia. Un’allerta senza allarme, una rilassatezza sì ma guardinga; una libertà vigilata, benché mi accorga dell’antipatia di questa espressione, in generale e tanto più in un giorno di festa come oggi.
    Sebbene siamo più protetti dal contesto, esistono inoltre delle criticità nuove, prima fra tutte l’atteggiamento mutato. Lo scetticismo che già serpeggiava durante la crisi acuta è diventato in molti una vera e propria resistenza all’ipotesi del contagio. Si parla di negazionismo, ma si tratta più di un ottenebramento. A prescindere dalla definizione, significa avere una parte di popolazione ancora più suscettibile al virus perché meno prudente. Dell’insieme fanno certo parte molti giovani, non per un menefreghismo connaturato come si è detto, ma per la convinzione ormai radicata che la malattia li risparmi, che siano al più degli asintomatici, unita all’istinto onnipotente — questo sì molto giovanile — di poter controllare l’eventuale linea di trasmissione che li incroci.
    Ma ci sono anche altri elementi, meno psicologici, come la circolazione straordinaria di persone in agosto, in Italia e dall’Italia e poi di nuovo verso l’Italia. Nuclei famigliari ora dispersi che a settembre si ricomporranno, massimizzando i contatti e raggiungendo di nuovo le fasce più vulnerabili. Il tracciamento ha funzionato e sta funzionando, ma non dobbiamo dimenticare la limitatezza delle nostre risorse. Con mezzo migliaio di casi nuovi al giorno e qualche centinaio di focolai la macchina a quanto pare regge, riesce a mappare, isolare, controllare. Ma con il doppio? Con il quadruplo? Esiste un punto di rottura del sistema di sorveglianza epidemiologica e nessuno sa con certezza quale sia. Oltrepassata quella soglia, le linee di trasmissione iniziano a sfuggire al monitoraggio e la situazione non si aggrava proporzionalmente, si aggrava esponenzialmente, la macchina va fuori giri, per la solita tendenza del contagio alla non-linearità. Come a marzo abbiamo fatto degli sforzi enormi per salvaguardare la tenuta del sistema sanitario, da qui in avanti dovremmo fare degli sforzi più tenui ma costanti per salvaguardare il sistema di sorveglianza e scongiurare un differente tipo di collasso.
    Nella pandemia l’Italia ha una storia speciale. Siamo stati i primi colpiti dell’Occidente, abbiamo subito un urto non attutito, che rimbombava ancora più forte nella solitudine. A fine febbraio il resto dell’Europa ci guardava con incredulità. Li abbiamo rimproverati di non aver saputo approfittare del vantaggio. Ora siamo noi in vantaggio, noi a guardare la Francia, la Germania, la Spagna, a dover dimostrare che la nostra esperienza ci ha reso più maturi nella gestione, al di là delle farneticazioni sul «modello Italia». Davvero vogliamo tornare a quei numeri?
    Non c’è una settimana di tempo per rispondere. Tanto meno due o tre. Questo è il momento in cui si evita di entrare nel vivo di un’altra emergenza, non uguale a quella passata ma non necessariamente meno spiacevole. Questo è il momento in cui le istituzioni non trattengono il fiato fino alla fine di agosto, stando a vedere ancora un po’, diluendo le responsabilità, dando indicazioni larghe, invitando a. Questo è il momento in cui non ci sono indugi né azzardi. La volta scorsa non lo sapevamo riconoscere, ma adesso sì.
    Soprattutto, questo è il momento in cui si decide non se le scuole riapriranno, ma per quanto resteranno aperte e come. Può sembrare pedante mettere, alla fine, tutto quanto in relazione alla scuola. Ma la relazione esiste ed è strettissima. Siamo pressoché certi che le scuole daranno un’accelerata all’epidemia, ne abbiamo la conferma di nuovo guardando fuori, alla Germania, alle difficoltà che gli Stati Uniti stanno riscontrando. Ben più importante dei banchi a rotelle, che forse tra qualche mese guarderemo nello stesso modo in cui ora ripensiamo alle cupole da spiaggia, è arrivare all’apertura con numeri bassi. I più bassi possibile. Se la base di nuove infezioni sarà troppo elevata, la situazione non si aggraverà più rapidamente, ma molto più rapidamente, la macchina andrà fuori strada al primo giro di pista. Non dovremmo pensare ad altro dopo un anno così. Una scuola attiva è il baricentro del Paese nella sua interezza, per questo l’appuntamento del 14 settembre è il più importante fra quelli segnati sulla nostra agenda comune. Ognuno di noi, secondo il grado di responsabilità a cui questa situazione l’ha collocato, deve compiere le rinunce necessarie perché possiamo arrivarci in ordine. Il momento è questo.

  • Non avete ancora visto niente, aspettate che riapre la scuola. Si, perchè sembra che il problema più grande del Paese sia riaprire la scuola. 600-900 alunni in un edificio che dovrebbero stare fermi come le mummie in un banchetto a un metro di distanza l’uno dall’altro. Ce li vedete i ragazzi, fermi come le statuine a misurare le distanze?

  • Complimenti a Salvo per la qualità dello scritto e le argomentazioni, migliore di tanti articoli che compaiono su questa testata online. Ogni tanto leggere un commento ben scritto (condivisibile o meno) è un piacere, a margine poi di un articolo sulla scuola ancora di più.

  • Ottimo commento Salvo.

    Si dovrebbe adottare una strategia di contenimento a scacchiera, siamo passa dal lockdown al liberi tutti dappertutto ed i risultati cominciano a vedersi purtroppo.

    Bisogna distinguere fra le cose essenziali per il contenimento -E ANCHE- per l’economia e le cose di cui si può fare a meno per un po di tempo.

    Il lavoro è essenziale, la produzione è essenziale, l’economia del paese è essenziale. Il divertimento non lo è, gli interessi particolari non lo sono, i viaggi di piacere non lo sono, anche la scuola non lo è, si potrebbe benissimo andare avanti con le lezioni da remoto per qualche mese, l’esperienza ormai è stata fatta e si può migliorare.

    Se poi ci saranno focolai da contenere non bisognerà mettere considerazioni politiche di mezzo, si blocca il focolaio senza se e senza ma, politici o di lobby.

    Purtroppo secondo me andremo verso una seconda catastrofe sanitaria ed economica, bisognava andare fino in fondo la prima volta e non vedo la determinazione necessaria a livello di governo centrale, non che le opposizioni diano una grande prova di se eh.

    Spero che a livello locare sindaci e governatori sappiano fare meglio e senza tentennamenti ulteriori.

  • Per onestà, è un copia incolla di un articolo del giornalista Salvo Sottile. Che condivido appieno. Avrei dovuto specificarlo prima.

  • I ragazzi non staranno fermi e distanziati. L’uso delle mascherine in un’aula scolastica, al caldo, con l’aria perennemente viziata a causa dell’elevata concentrazione di esseri umani in una stanza ampia 5 metri per 5
    mi pare assurdo, improponibile!

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