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Più fatti e meno parole (di Giuseppe Fauceglia)

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E’ noto che a fine anno, a causa del Covid, avremo perso circa l’11% del nostro reddito, e la speranza di una ripresa dell’economia potrà completarsi solo in tre anni, ovvero alla fine del 2023 (come dimostra una recente indagine della Banca d’Italia). Solo allora potremo riprendere la nostra crescita pre-pandemia, guadagnando – a differenza degli altri Paesi Europei –   pochi decimali all’anno.

La conseguenza è che il tasso di disoccupazione passerà dal 10 al 12% circa e il 50% dei nostri giovani non potrà sperare in un posto di lavoro stabile; più famiglie vivranno sotto la soglia di povertà e insorgeranno più disuguaglianze nella distribuzione del reddito (anche perché nel corso del 2020 molte famiglie hanno già utilizzato i loro risparmi).

A fronte di questo disastro, l’unica misura adottata dal Governo è stata quella di far crescere il nostro debito pubblico da 30 ad oltre 180 miliardi di euro, e di questo debito – che prima o poi dovrà essere risanato a scapito delle generazioni future – si è fatta interamente carico la Banca Centrale Europea acquistando, solo in questo anno, 225 miliardi di titoli pubblici italiani.

Fra un anno saranno forse disponibili i 209 miliardi di euro che la Commissione Europea ha messo a disposizione del nostro Paese. Si tratta di risorse una tantum, non rinnovabili e che presuppongono un piano di investimenti che l’Italia non ha ancora predisposto, in notevole ritardo rispetto ad altri Paesi, come la Spagna o la Germania.

Il Governo e la sua maggioranza, accompagnati dall’insufficienza dell’opposizione, hanno in questi mesi perduto tempo utile per indicare piani specifici e completi di investimenti.

Nessuna riflessione ho potuto leggere in questi mesi ne documenti governativi sulla produttività della nostra economia, soprattutto sulla distinzione fra imprese grandi e piccole, da una parte, e fra imprese private e amministrazioni pubbliche, dall’altra.

Mentre la produttività delle nostre imprese manifatturiere private è comparabile, se non addirittura superiore, ai livelli delle imprese tedesche, la produttività è molto bassa, invece, per le piccole imprese e per le pubbliche amministrazioni.

In quest’ultimo caso, la produttività è frenata dalla politica che distorce gli incentivi del manager, con la conseguenza che il dogma pericoloso, che si va diffondendo nell’inconsapevole classe di governo, è che lo Stato imprenditore possa aiutare l’efficienza dell’economia.

Si tratta di una politica distorsiva che, come dimostrato da illustri economici, quali Fabiano Schivardi e Tom Schmitz, non aiuta affatto la produttività delle imprese sottoposte al controllo della pubblica amministrazione né la efficienza delle stesse pubbliche amministrazioni, in cui sono impiegati 3,5 milioni di dipendenti, in gran parte in questi mesi in smart working a casa (con gli effetti che ognuno può verificare) e pronti a scioperare perché non ritengono sufficiente l’aumento di 100 euro lordi al mese previsto nella legge finanziaria .

E’ rimasto inascoltato l’appello, proveniente da più parti, di una riforma vera della pubblica amministrazione, sì che nella Legge di bilancio, attualmente in discussione alla Camere, non si legge, a meno di un generico riassuntino di misure settoriali, alcun intervento sulle pubbliche amministrazioni, che rappresenta il punto dolente per un utilizzo efficace delle misure di ausilio di provenienza europea.

Per trovare qualche riferimento, occorre leggere l’Agenda per la semplificazione 2020-2023, che contiene anche questa semplici enunciazioni e l’individuazione di un complesso ed articolato, se non inutile, Tavolo di concertazione (con attribuzione di funzione di risoluzione di conflitti) tra governo centrale, Regioni ed enti locali. Gli obiettivi molto ambiziosi di eliminare i vincoli burocratici alla ripresa e di ridurre i costi delle procedure sia per i cittadini che per le imprese, finiscono per restare vuote parole.

Non è necessario, infatti, moltiplicare gli organi e i processi decisionali, quanto avvalersi di indicazioni da parte di chi applica e subisce le procedure. Ad esempio, perché non ripensare a quel vero e proprio coacervo di norme che disciplinano attualmente il c.d.  abuso d’ufficio o non ridisegnare il tema della giustizia amministrativa che tende sempre di più a sostituire le scelte necessariamente discrezionali e politiche della pubblica amministrazione ? perché non superare il pensiero fariseo che nei ministeri e nelle pubbliche amministrazioni si scelgono non i dipendenti o i funzionari più preparati e meritevoli, ma gli amici e gli amici degli amici ? perché non pensare ad un vero monitoraggio dell’efficienza ed efficacia delle amministrazioni pubbliche, con l’individuazione dei risultati programmati e il successivo controllo di quelli effettivamente conseguiti, con conseguente responsabilità dei dirigenti degli uffici ? perché non pensare ad una “modulistica unificata” per tutte le procedure, restringendo inutili valutazioni, che spesso trasmodano nel capriccio o nel puro favoritismo ?

Il vero dramma è che i nostri governanti e i funzionari della pubblica amministrazione non hanno una mentalità “semplificante”, non si sono liberati di una pura logica procedurale per accedere, invece, ad una logica di risoluzione dei problemi.

E’ evidente che in tal modo si continuano a salvaguardare pure logiche di potere, di frequente eterodirette proprio dalla politica, e si mette da parte la vitale esigenza di un Paese, che richiede soluzioni equilibrate e rapide dei problemi. Un obiettivo che oggi, senza una vera e propria rivoluzione culturale, oltre che normativa, mi pare irraggiungibile.

Giuseppe Fauceglia  

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