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Quando le riforme restano “un sogno” (di Giuseppe Fauceglia)

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Qualche giorno fa ho incontrato un amico, importante imprenditore nel settore della pubblicità, il quale si è dichiarato entusiasta per l’attività organizzativa del generale Figliuolo in relazione al piano vaccinale nazionale, confessando di essere, per la prima volta, “contento” di pagare le tasse del mese di aprile.

Dopo una settimana ho incontrato un giudice, quasi prossimo alla pensione, stimato per preparazione e per equilibrio, il quale, dopo gli ultimi scandali che hanno interessato la magistratura italiana, si è dichiarato in qualche modo sconfitto nei suoi ideali  e nella sua funzione.

Si tratta di due opposte e, probabilmente, eccessive manifestazioni di un comune sentire: la fiducia verso lo Stato cresce quando più si afferma la serietà e l’autorevolezza di chi quelle istituzioni rappresenta e incarna. Pare anche il caso di aggiungere che la fiducia cresce quando più le istituzioni, coinvolte da scandali e disfunzioni, riescono ad autoriformarsi, fenomeno pressoché sconosciuto nel nostro  Paese.

Ad esempio, l’esercito è riuscito a trasformare, sia pure con fatica e lentezza, la propria immagine nel corso degli ultimi quaranta anni, intervenendo nelle catastrofi naturali per portare aiuto alle popolazioni; partecipando alle missioni umanitarie e di pace nel mondo; aprendosi al confronto con le associazioni di volontariato e del servizio civile.

La magistratura, invece, resta un potere dello Stato capace di perdere in soli due anni la fiducia degli italiani, ormai crollata dal 60% al 32,1%, nonostante che la preparazione di gran parte dei magistrati italiani resti ancora di gran lunga superiore a quella dei giudici degli altri Paesi europei.

Invero, gli scandali di questi ultimi anni non hanno prodotto alcuno sforzo di autoriforma, nessuna proposta “forte” è pervenuta dai  tantissimi magistrati che svolgono il loro lavoro con preparazione, senso spiccato dell’indipendenza ed  integrità morale.

Le dinamiche di questi anni, in cui a volte sono “premiati” con incarichi di prestigio proprio quegli appartenenti all’ordine giudiziario che hanno commesso più errori (si legga l’articolo su “Il Dubbio” del 4 maggio), ha comportato che anche molti giovani magistrati (per fortuna, non tutti !) si danno come obiettivo concreto non tanto la loro preparazione e la consapevolezza dell’esercizio delle rilevantissime funzioni svolte, quanto la partecipazione alle vicende delle correnti, nella speranza che in questa logica clientelare dell’ “appartenenza” (sul tema, rinvio a quanto con chiarezza scrive Gian Carlo Caselli su La Stampa del 1 maggio) possano trovare collocazione le loro aspirazioni di carriera.

Un modello che nessuno, se non il legislatore, è in grado di riformare, come più volte richiesto dallo stesso Presidente della Repubblica. Naturalmente, un Paese serio non ha bisogno delle prediche pelose di una classe politica che pasteggia ora sui guai della magistratura, dopo aver provato a disarmarla e a lottizzarla.

Abbiamo la necessità di una magistratura che riscopra il valore alto della giurisdizione, superi gli incunaboli di una corporazione sempre più svilita e data in pasto alla sfiducia degli italiani.

In questi giorni la mia personale sfiducia, oltre che da episodi concreti tratti da vicende professionali (in un comune sentire che ormai attanaglia l’avvocatura più consapevole), è stata ulteriormente motivata dalla lettura del libro di Morena Gallo, “La chiamano giustizia. Ma è ciò che il giudice ha mangiato a colazione”, stampato  da “Pacini Editore”.

Ora, però, si tratta di evitare il totale discredito delle istituzioni repubblicane, superando quella percezione devastante, figlia del precipizio di credibilità, che riduce la Giustizia ad un vero e proprio campo di battaglia, in cui, a volte, emerge una certa sciatteria valutativa, che smarrisce quella “sacralità della funzione”, di cui parlava Calamandrei. Si tratta di fenomeni dapprima sconosciuti ovvero non così evidenti come oggi.

Per non demolire quel poco di fiducia che gli italiani ancora ripongono nella Giustizia, bisogna allora partire dalla riforma dell’Ordinamento giudiziario (lo evidenzia il prof. Vincenzo Musacchio in un articolo interessante pubblicato ne “Il Dubbio” del 6 maggio), del Consiglio Superiore della Magistratura e del suo sistema elettorale, nonché, probabilmente, della stessa legislazione italiana in tema di responsabilità dei magistrati (dopo un inutile e disatteso referendum proposto dai radicali sul finire degli anni Ottanta dello scorso secolo) secondo i canoni delle più moderne legislazioni dei Paesi europei, salvaguardando l’assoluto valore costituzionale dell’ autonomia e dell’ indipendenza della magistratura.

Sarebbe bello se questa riforma partisse proprio dai Giudici e non venisse affidata ad un legislatore che considero disattento e pericoloso, il quale ora pensa solo ad un’inutile commissione di inchiesta (segno evidente della inconsapevolezza della gravità del problema).

Ultima notazione: vero è che la corporazione è riuscita ad espellere Palamara (ma, poi, perché solo lui ?), mentre i politici che hanno frequentato siedono ancora in Parlamento. Vi è, però, che i parlamentari sono eletti dal popolo (che spesso erra !!), mentre i giudici assumono le funzioni a seguito di un concorso: e questo dato resta, pur sempre, fondamentale in democrazia.

Giuseppe Fauceglia

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