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Sicurezza e libertà: alla ricerca di uno Stato autorevole (di G. Fauceglia)

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Ho di recente letto il libro di Daron Acemoglu e James Robinson, “La strettoia. Come le nazioni possono essere libere”, edito dal Saggiatore, un volume importante perché spiega i motivi in ragione dei quali alcuni Stati prosperano economicamente e garantiscono libertà e benessere dei cittadini, mentre altri sono irrimediabilmente destinati all’insuccesso.

Per gli Autori le condizioni che consentono libertà e benessere sono da individuarsi in uno Stato autorevole ma non dispotico e in una società attenta nel reclamare libertà per i propri membri.

In sostanza, il fondamento, addirittura pre-moderno dello Stato, da Thomas Hobbes in poi, viene individuato nella adeguata reazione alla minaccia interna, quali l’insicurezza sulla conservazione della propria vita e dei propri beni dovuta all’assenza di un efficace sistema legale e giudiziario, nonché  a quella esterna, quale l’aggressione di altri Stati.

In questa prospettiva, il “successo” di uno Stato si misura sulla contemporanea crescita del suo potere e su quello della società, sì che libertà e benessere si realizzano allorquando entrambi i poteri si rafforzano, ovvero quando la società si mobilita ed obbliga lo Stato ad assumersi sempre nuovi compiti e funzioni.  Da ciò l’importanza di uno Stato autorevole ed efficiente e di una società composta da individui tendenzialmente liberi di scegliere il proprio destino.

In questo contesto possiamo inserire una domanda che, in occasione delle emergenze pandemiche, è apparsa a tutti essenziale: conta più la sicurezza o la libertà ? Non è una domanda generica, perché sulla sua risposta si fonda un problema centrale della vita degli individui, perché nell’apparente antinomia tra sicurezza e libertà può individuarsi la modernità dello Stato, che si realizza attraverso un patto sociale, secondo il quale il governo, il legislatore e i giudici non possono oltrepassare il limite del loro legittimo potere, se non sconfinando nell’abuso.

In verità, mi pare che ormai sembra superata quella specie di “fiducia” in una società liquida o in istituzioni liquide (per utilizzare l’espressione di Bauman Zygmunt) , mentre cresce l’esigenza di solidità e di certezze. La libertà, allora, non è configurabile come un impedimento per la sicurezza totale e il benessere, essa resta, invece, una pre-condizione: senza libertà non vi è mercato, e non vi è neppure uno Stato.

Basta, però, osservare quanto accade per rendersi conto che nel nostro Paese, lo Stato e le istituzioni hanno da tempo smarrito la loro autorevolezza, inducendo gli stessi cittadini a considerare gli obblighi come false prescrizioni sempre meno vincolanti , sino a rappresentare la loro libertà come manifestazione di un inconsapevole esercizio di arbitrio.

Sono interessanti, allora, le osservazioni di Natalino Irti, “Viaggio tra gli obbedienti”, edito da Mondadori Store, in cui viene ricostruito il fondamento giuridico dell’obbligo di osservare i “precetti” e i “comandi”, come manifestazione non già di uno sciocco servilismo ma della “libertà” su cui si fonda la stessa convivenza civile.

Proprio per questi motivi, nonostante il pessimismo della ragione che è frutto dei tempi moderni, la società deve riprendersi il proprio ruolo, muovendo dalle ragioni che fondano la coesistenza civile, per “imporre” ad una classe politica, sempre più amorfa e inconsapevole del proprio ruolo, le necessarie riforme che restituiscano autorevolezza alle Istituzioni, ivi comprese quella giudiziaria.

Se nessuna riforma risulterà possibile, agli “obbedienti” e ai “volenterosi” non resterà che chiedere al “popolo” di pronunciarsi con l’istituto referendario, pur nella consapevolezza che questo non è la “medicina” salvifica, ma solo il “segno” di una volontà collettiva.

Giuseppe Fauceglia

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