Quando la democrazia non è liberale (di Giuseppe Fauceglia)

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Luciano Canfora scrive che c’è un certo grado di violenza e sopraffazione nella parola “democrazia”, e non perché l’espressione venga utilizzata comunemente in opposizione all’autocrazia, ma perché la contrapposizione va rinvenuta nel rapporto tra democrazia e oligarchia (secondo quell’antica prospettiva fatta propria da Aristotele, nel libro III della “Politica”).

La democrazia ateniese era in realtà il “governo dei poveri”, una specie di dittatura del proletariato, come la definì Arthur Rosemberg, considerato che nelle assemblee elettive ateniesi intervenivano non i circa trentamila cittadini, ma di questi solo cinquemila, in pratica una vera e propria minoranza “politicizzata” formata da non possidenti alla quale era stato attribuito “il potere di comandare”.

Ma la prospettiva non muta pure a seguito della Rivoluzione francese, se pensiamo che nel periodo, forse più buio di quell’esperienza, la Convenzione fece arrestare l’altra metà dei “deputati”. Si tratta, allora, di un’espressione che storicamente finisce per restare priva di un effettivo contenuto significativo, se si pensa che anche nel mondo anglosassone il termine “democracy” era spiegato come “social revolution”.

In realtà, nel contesto delle contrapposizioni tra i “blocchi” immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale, il termine finisce per essere tradotto in quello proprio della democrazia parlamentare e rappresentativa, ora finanche superata da una certa improvvida istanza di democrazia diretta sulla rete, che resta comunque affidata a pochi sacerdoti, che orientano e stravolgono il libero diritto di “scelta”. Questo senza pregiudicare i dubbi sull’effettività del sistema rappresentativo, del resto ben manifestati nell’opera, da alcuni mala interpretata, di Rousseau.

Ciò impone di considerare in modo in qualche modo innovativo il termine “democrazia”, consentendo di ritenere la stessa non compiutamente esistente laddove, sia nel contesto locale ed amministrativo che in quello nazionale, sussista un potere talmente forte da “imporre” sostanzialmente le scelte elettorali.

In questa prospettiva, probabilmente, può spiegarsi la previsione della fattispecie del c.d. “voto di scambio” che, sia pure abusato nella contestazione giudiziaria, disvela il tentativo di colpire le patologie estreme della disfunzione democratica.

Orbene, se rappresenta un dato imprescindibile quello del libero esercizio del diritto di voto, non può essere dimenticato che lo stesso trova fondamento nella consapevolezza della scelta, che resta, però, inquinata da clientele, possibili ricatti, imposizioni velate e non.

L’antidoto, però, è affidato al corpo elettorale, al quale vanno proposte scelte coraggiose e chiare. Non può sfuggire, allora, la tragicommedia che vive la nostra città, laddove un candidato della presunta opposizione sembra aver combattuto la singolare sfida con l’unico intento di assumere la presidenza della c.d. Commissione trasparenza, magari utilizzando gli stessi voti di quella maggioranza, che pure aveva contestato.

Per le funzioni di garanzia che sono attribuite a questa Commissione, sarebbe più logico e corretto evitare veti incrociati e designare quale Presidente un consigliere dell’opposizione, evitando l’incetta di incarichi (non vi sono consiglieri “unti dal Signore”, come pretenderebbe qualche neo-eletto), ma soprattutto che quest’ultimo sia in grado, per presenza e costanza, di assicurare una qualche funzione pratica alla Commissione. Ma questa è un’altra storia, che gli elettori, probabilmente, non prenderanno nelle urne in alcuna considerazione.

Giuseppe Fauceglia   

 

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