Mani (di Enzo Capuano)

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Vi dirò soltanto che mi lasciai pilotare nel buio

da qualcheduno

che m’aveva preso in silenzio per la mano.

(Giorgio Bassani)

Un uomo, ormai molto avanti negli anni, era seduto a un tavolo di un bar lungo la spiaggia. Il mare luccicava in maniera così intensa che il riverbero rendeva poco distinguibile ogni cosa lontana. Ancora percepibile la costa che si disegnava sulla retina con linee indefinite, mentre il contrasto tra i colori andava perdendosi. Riusciva anche a cogliere, lungo l’orizzonte, le diversità d’azzurro tra mare e cielo.

La luce accecante lo distolse dall’osservare il mare e lo indusse a focalizzarsi sugli oggetti vicini: una sigaretta andava smorzandosi nella ceneriera, gli spiccioli, preparati per il cameriere nell’angolo più distante del tavolo, vicino a un libro di Herman Hesse.

Stava rileggendo i suoi autori preferiti dei tempi dell’Università.  Un gatto si infilava tra le sedie con un andare lento. L’uomo, inaspettatamente, si soffermò a osservare le proprie mani. Le analizzò attentamente.

Con il passare dei minuti, concentrato sul suo corpo, si sentì sempre più spettatore di se stesso e il percepire le cose in maniera confusa lo invitò a proseguire. Continuò a indagare la pelle delle proprie mani: l’increspatura della cute e le sue macchie, gli apparvero come oasi lontane tra la sabbia di un deserto senza limiti.

Mentre il gatto continuava a rotolarsi sotto al tavolo e il profumo della salsedine riempiva gli spazi, rivide quelle mani, in giorni di tanti anni prima, cercare il viso della mamma; con quelle mani aveva provato a scrivere le prime lettere dell’alfabeto e poi avevano imparato ad accarezzare.

Sempre loro si erano strette in pugni nelle occasioni difficili e avevano asciugato le lacrime nei momenti tristi e di gioia intensa. Quelle mani avevano intrecciato le proprie dita con colei che ora era sua moglie e con i figli e poi, trasformate dagli anni, con i nipoti. Mani intrecciate, per sempre…

E ora, le sue mani stanche erano lì, tacite, al sole, in attesa…

Gli si inumidirono gli occhi e continuò a perdersi tra i pensieri.  Ebbe, per la prima volta, tenerezza per se stesso e con la mano destra carezzò l’altra.

Le mani, soprattutto dei bambini, lo avevano sempre affascinato. In quelle piccole mani, protese nel nulla, a cercare di capire l’universo, è espressa tutta la potenza della vita.

Si ricordò di quando, a Malindi, suo figlio Eduardo, lo invitò a scattare quella foto: il palmo della piccolissima mano di quell’incantevole bimbo nero affidata al suo palmo a cercare contrasti infiniti, per scrivere insieme la parola: “uguale”.

E poi gli ritornò alla mente un altro scatto che, sempre suo figlio, gli inviò alcuni giorni dopo che era diventato nonno. Quell’immagine sacra di famiglia: la mano di Eduardo, quella di sua moglie e quella minuscola del loro piccolo, a giocare con i loro anelli nuziali. Immagine, fissata su pellicola, mentre pensavano: “Per sempre”.

A volte si mescolano inutilmente parole per esprimere concetti, sentimenti, mentre un solo gesto, una sola immagine spiega mille emozioni.

Le mani segnano l’inizio di ogni cosa… con esse si hanno i primi approcci alla vita. Le mani sono le prime impronte che i bambini riproducono sui fogli bianchi, pensò ai fogli esposti nelle camerette di Vincenzo, Giorgia, Nicolò. Pensò, poi, alle impronte lasciate da uomini di circa 17.000 anni fa nelle “grotte di Lescaux”: erano mani. Oggi quelle impronte, raccontano la storia degli inizi dell’uomo.

Rivolse, ad occhi chiusi, lo sguardo verso il sole e tra infiniti luccichii, gli vennero incontro le mani di suo padre, degli ultimi tempi insieme… quando lui, medico, disperatamente cercava sul dorso della mano una vena, nella speranza di offrirgli ancora degli attimi di vita.

Considerò: “Come sono simili oggi le mie mani a quelle sue di ieri”.

Infine ricordò alcuni versi di una poesia scritta anni prima:

Ieri, un bacio quasi per gioco, / e poi insieme fino all’infinito; / Tu, le mie stesse sensazioni, /uno, due, tre… mille volte, / dammi la mano, stammi vicino, / andiamo lentamente, sotto la pioggia / andiamo, per sentieri inesplorati, / pieni di luce, / per mari, deserti e fiumi / a scoprire mondi ovattati da ragnatele d’acqua.

Enzo Capuano

2 Commenti

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  • Qualcuno ha detto che la vecchiaia non è un posto per signorine, in quanto tutta la fragilità del nostro corpo biologico viene fuori a dimostrarlo in modo più o meno sfacciato. Ma se non altro, allo sbiadirsi degli ardori, degli impegni e delle distrazioni della vita, unitamente a un senso di distacco o di solitudine, è almeno il posto per raccogliere i propri pensieri, e, sfogliando le pagine della memoria, tornare sui propri passi, rivedere istanti significativi, riflettere sul senso della vita, ora che si avvia alla fine. Mentre finora ha concentrato l’attenzione verso quel che vedeva davanti ai suoi occhi, per tracciare la propria strada, usato il suo tempo per seguirla, adesso è il momento di guardare dietro i suoi occhi, per rifletterci su tutto quel che è stato. Il sole cala nel mare liquefacendosi, il suo caldo splendore muta lentamente nel freddo buio, è la similitudine della vita che si spegne. Eppure l’uomo assolto nei suoi pensieri, ha la rassegnazione pacata di chi sa che pur quando l’ultimo suo pensiero correrà tra gli assoni e sinapsi della sua mente, un filo sottile lo legherà sempre a quel che è stato, alcune sue molecole saranno presenti nei suoi figli e nipoti, così come è stato per il suo corpo, formatosi e cresciuto utilizzando atomi presenti da milioni di anni su questo pianeta. Perchè nel mistero di questo universo, niente si crea, niente si distrugge, tutto si trasforma.

  • Caro P.M. grazie dei commenti che ormai giungono puntuali, dopo ogni articolo e lo arricchiscono, anche perché vedo che abbiamo molte esperienze e sensazioni in comune. In più emozioni e pensieri vengono descritti in maniera piacevole ed accattivante. Grazie ancora. Ottima settimana.

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