Povera scuola, ma poveri noi (di G.Fauceglia)

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Mi è capitato in questi giorni di leggere l’ interessante volume di Matteo Morandi,  “La fucina dei professori. Storia della formazione docente in Italia dal Risorgimento a oggi”, edito da Scholé, 2021.

Da quest’ultima lettura e dalle precedenti ho avuto la conferma di una convinzione che mi accompagna da qualche tempo: il sistema di reclutamento e di formazione dei docenti in Italia resta significativamente inciso dalla scarsa appetibilità del ruolo.

Bisogna dire la verità: qualche decennio addietro, anche per un professionista ottenere l’insegnamento in qualche istituto di istruzione superiore significava poter modulare la professione e contemporaneamente assicurarsi un’entrata mensile (con risultati negativi, a volte, facilmente prevedibili ).

Ora, invece, l’attrazione della mezza giornata di lavoro o delle lunghe ferie estive, ridotte al lumicino, in uno alla crescente burocratizzazione, ai bassi stipendi e il compito sempre più gravoso imposto  ha reso di fatto non più appetibile il ruolo docente.

A ciò bisogna aggiungere che dall’introduzione dei famigerati “Decreti delegati”  che, a metà degli anni settanta dello scorso secolo, aprirono le scuola alle rappresentanze degli studenti e delle famiglie, sempre più invasiva si è dimostrata la incidenza dei genitori sul metodo e sui risultati dell’insegnamento.

Padri e madri, considerando i propri figli novelli esponenti delle scienze, non solo hanno significativamente contestato i risultati valutativi, ma hanno inondato i Tribunali Amministrativi Regionali con una valanga di ricorsi per contestare bocciature e, a volte, finanche i voti assegnati ai loro figli.

Un quadro impressionante che ha portato alla progressiva abrasione della funzione docente e che, in uno con l’esiguità degli stipendi e con la scarsa considerazione sociale del ruolo e l’impossibilità di proseguire nella carriera, ha determinato la situazione in cui oggi ci troviamo.

I dati degli ultimi anni fanno davvero impressione: se consideriamo cento cattedre solo la metà risulta coperta da docenti titolari (si legga il documento elaborato dalla CISL sui dati ufficiali del Ministero dell’Istruzione).

Nei primi mesi dell’anno scolastico in corso sono state centinaia le scuole alla disperata ricerca di insegnanti, tanto che, come si è letto dai giornali, alla ripresa delle lezioni, dopo le vacanze natalizie, il preside di un liceo scientifico di Parma, non trovando supplenti in matematica, è stato costretto a rivolgersi a laureati e laureate “di buona volontà”.

La situazione è destinata a peggiorare, posto che si attende l’onda lunga dei pensionamenti dei cc.dd. baby boomer , che nei prossimi dieci anni manderà a casa quasi la metà degli insegnanti, mentre mancano nuove reclute.

La situazione non risulta migliorabile neppure se consideriamo il crollo delle nascite, evento che non può essere considerato una panacea, ma che dovrebbe essere utilizzato, invece, per una profonda riorganizzazione del sistema.

Indubbiamente, il problema degli stipendi bassi resta uno di quelli più rilevanti: all’ingresso in media un insegnante percepisce uno stipendio appena superiore a 1.300 euro (non bastano neppure per il sostentamento, se, ad esempio, un docente del Sud è chiamato a svolgere il proprio ruolo al Nord), per arrivare a fine carriera dopo 30 anni di insegnamento al massimo di circa 2.000 euro.

Se pensiamo agli aumenti di recente concessi dal Governo  ai dirigenti dello Stato e delle aziende pubbliche, che già percepiscono 250.000 euro annuali, si può comprendere lo scoramento di chi, dopo decenni di studio, arriva a guadagnare meno di un idraulico (e il discorso vale anche per i dirigenti scolastici, che sono travolti da responsabilità penali e amministrative di ogni tipo !).

I tentativi perseguiti, tra cui quello di premiare i più meritevoli (invero, con poche decine di euro !!), si sono scontrati con le resistenze dei sindacati che preferiscono assegnazioni a pioggia (ovvero senza valutazioni di merito), e con il “lasciar vivere” dei dirigenti scolastici i quali, a volte, per evitare contestazioni, preferiscono una distribuzione non eccessivamente selettiva dei compensi.

In realtà, il risultato finale rischia di ingenerare ingiustizie maggiori del sistema a-premiale attuale. Invece, andrebbe valorizzato il tentativo di legare eventuali progressioni di carriera e stipendiali alla formazione in servizio, che però deve essere qualificata e non affidata ad improvvisate agenzie formative (spesso nelle mani di privati, che hanno importanti legami con le stesse strutture centrali, come abbiamo appreso di recente dalle cronache).

Il PNRR ha previsto lo stanziamento di 300.000 euro per creare un’agenzia governativa che dovrebbe garantire  corsi di aggiornamento.

Invero, non solo l’importo resta esiguo, ma bisognerebbe, con forza e coraggio, recidere i legami,  a volte non proprio commendevoli,  con strutture e alti dirigenti ministeriali, per evitare la riproposizione di quei modelli che nel passato hanno finito per vanificare gli sforzi riformatori.

Giuseppe Fauceglia

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