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La crisi della funzione educativa e l'”io” esasperato (di G. Fauceglia)

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Mi pare che la crisi che investe il sistema educativo coinvolga due mondi apparentemente distanti, ma strettamente complementari: il comportamento umano e la dittatura dell’ ”io” digitale. Le nuove tecnologie, con i loro potenti ed invasivi dispositivi di comunicazione, hanno praticamente stravolto il senso del “vivere in comune”.

Lo sviluppo delle interconnessioni di rabbia o di insoddisfazione dei singoli individui, ha finito per spezzare la carica democratica che ha avuto, dall’Illuminismo in poi, “la liberà di parola e di pensiero”, per svincolarla da ogni freno inibitorio, assecondando l’individualismo dell’autosufficienza dell’ “ego”, che resta la manifestazione estrema del conformismo.

In tal modo è stato distrutto il principio di “autorità”, che è quello che lega e contraddistingue una comunità sociale e sul quale si fonda la stessa ragione del “diritto”, trasformando le persone in “monadi rabbiose” (l’espressione si legge in un interessante volume di Eric Sadin, “Io tiranno.

La società digitale e la fine del mondo comune”, ed. Luiss University Press, magistralmente recensito da Carlo Bordoni sull’ultimo inserto de “La Lettura”, “Corriere della Sera”).

E’ proprio in questo contesto, che attraversa tutta la società ad esclusione delle realtà rurali in cui ancora sopravvive il barlume del rispetto delle “istituzioni educative”, che va ricercato quel processo crescente di pericolosa diseducazione civica, che ha prodotto il risultato oggi sotto gli occhi di tutti.

Basta recarsi in qualche liceo cittadino, anche tra i più famosi, per constatare il mai così basso livello di educazione e di consapevolezza civica degli alunni, nonché per verificare – a volte – la mancanza di ogni rispetto verso gli educatori, in un progressivo affermarsi di una presunta autosufficienza intellettiva (costruita sovente su fake news che diventano realtà o postverità).

A tanto ha contribuito una certa propensione dei genitori nell’offrire giustificazioni a qualsiasi comportamento dei propri figli: si tratta di una generazione che, sulla scorta di un individualismo esasperato e senza “responsabilità”, ha progressivamente distrutto la “scuola” ovvero il luogo in cui si dovrebbe formare la coscienza e la conoscenza delle giovani generazioni.

Sono quegli stessi genitori che stazionano innanzi alle scuole medie ed elementari, i quali “promuovono” i loro figli a dispetto dei giudizi dei docenti, che arrivano a criticare, a volte con ferocia e senza averne alcuna competenza, metodologie didattiche e di apprendimento.

Certo, si tratta di un processo favorito dalla stessa crisi della docenza, frutto velenoso di terribili ed assurdi sistemi di reclutamento, di scarsa appetibilità delle retribuzioni, in una morsa giornaliera in cui prevale il burocratese, la moltiplicazione di corsi inutili progetti, buoni solo all’impiego a pioggia di fondi pubblici.

L’esempio di una scuola elementare (quella conosciuta dalla mia generazione), in cui nella stessa classe convivevano scolari dalle più disparate provenienze sociali, in una perfetta osmosi di sentimenti, di retroterra familiare e di sensibilità, ha lasciato il posto a classi spesso “preformate” secondo l’estrazione sociale di appartenenza.

Ho ascoltato in questi anni il grido di dolore proveniente da dirigenti scolastici, che mi hanno raccontato delle insistenze di genitori che richiedevano la iscrizione dei loro figli in classi composte da alunni provenienti dal medesimo contesto sociologico.

In tal modo non solo si rifiuta il processo formativo in sé, ma si pongono le basi per una profonda diseguaglianza sociale, il contrario di quel valore che la scuola pubblica aveva assunto sin dalla riforma Gentile, e, in qualche modo, conservato nelle riforme dello scorso secolo.

In questo modo abbiamo assistito impotenti allo smantellamento della scuola e dell’università pubblica, in una progressiva e pericolosa svalutazione del merito, che provoca in molti il forte desiderio di abbandonare il campo, in un pessimismo anche della volontà che non riesce a intravedere, neppure da lontano, la fine del tunnel.

Ciò, però, non può indurre “all’abbandono delle armi”, alla rinuncia senza speranza: ma è proprio questa, tra le virtù teologali la più umile e nascosta (come di recente ha ricordato papa Francesco), a dover ispirare i nostri comportamenti di educatori, nella certezza che il silenzio e la costanza dell’ “esempio” e della “dedizione” nella funzione possa, anche un domani, sconfiggere le barbarìe dei tempi moderni.

Giuseppe Fauceglia  

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