Le donne e l’Iran (di Cosimo Risi)

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Le donne sono in prima linea nelle proteste in Iran. Sono le prime a pagare le conseguenze del loro coraggio. E’ il caso di Mahsa Amini, morta mentre era nelle mani della Polizia.

Si parla di tradizioni diverse rispetto al lassismo occidentale, si parla di convinzioni ataviche che maturano nelle famiglie e si riverberano nella società. La teocrazia al potere, tutta declinata al maschile, non può che guardare con sospetto all’anelito delle donne  ad essere soggetti vitali, intelligenti, capaci di decidere del proprio destino, senza essere eterodirette dal padre, dal fratello, dal marito, dal clero, dalla polizia morale.

Un balzo verso il modello occidentale? Sarebbe imprudente dirlo e addirittura dannoso per le “ribelli”. Si darebbe ulteriore argomento ai detrattori, per loro le marce sono invenzioni dell’Occidente, del Grande Satana americano, per fiaccare la resistenza della Repubblica Islamica, già provata dalle sanzioni economiche.

Il complotto straniero, per quanto possa avere qualche fondamento, è la scorciatoia dei regimi per bollare da illegale qualsiasi forma di protesta. Il disallineamento dal pensiero dominante è reato.

E’ scritto nella storia della Repubblica Islamica il ripudio della laicità. Non quella banalmente all’occidentale, ma la stessa della Rivoluzione di fine Settanta. All’epoca tutte le forze a vario titolo contrarie allo Scià Reza Pahlavi  si riunirono in un cartello di convenienza. C’erano gli esponenti religiosi, il più illustre era l’Ayatollah Ruhollah Khomeyni dall’esilio francese, c’erano gli esponenti laici, spiccava Abolhassan Banisadr, il  primo Presidente della Repubblica eletto con il 70% dei voti.

La convergenza di comodo si consumò presto, la parte religiosa finì per fagocitare la laica. Lo stesso Banisadr dovette lasciare. La speranza di rinnovamento, in senso riformistico e progressivo, passò allora ai riformatori: esponenti dello stesso clero che trovavano troppo stretta la maglia attorno alla società. La corrente interpretava gli umori della comunità del Bazar, più adusa agli affari che al puritanesimo.

Le donne, palesemente influenzate dall’esterno, chiedevano di più, quello che non potevano ottenere in pubblico, lo praticavano in privato. I diplomatici in servizio a Teheran raccontavano delle loro ospiti, arrivavano castigatamente abbigliate e rivelavano indumenti quasi succinti, alla nostra moda. Anche nei costumi pativano la cappa del conformismo, l’occasione conviviale era l’effimera liberazione.

I numeri della protesta sono impietosi: 440 uccisi nelle manifestazioni, 18.059 incarcerati fra cui 62 giornalisti, 156 città coinvolte. Il sito ISPI intitola: “Tra il Medioevo e Tiktok”. Come già nelle Primavere arabe del 2011, è la Rete a propagare le proteste. Ora si allargano ad altri strati della società, investono la Generazione Z, i giovani in cerca di un avvenire che non sia segnato dall’oscurantismo.

L’evoluzione dei fatti è difficile da prevedere. La protesta può deflagrare ovunque e portare ad un cambio di regime. Il regime può osare la repressione selvaggia per tacitare  tutto. Può intervenire la mediazione dei riformisti, gli eterni volenterosi del fare e con poco potere per fare davvero. L’ex Presidente Mohammad Khatami, la figura di spicco di questa corrente, comprende le ragioni delle proteste ma teme che sfocino in un movimento rivoluzionario e potenzialmente anarchico.

La Repubblica è sotto tiro con le sanzioni, insiste nell’arricchire l’uranio, paventa  l’attacco esterno per fare cessare la corsa al nucleare. I negoziati per ripristinare il Piano d’Azione procedono stancamente. La parte americana vorrebbe chiudere e, nel contempo, porre all’Iran condizioni nette. E’ verosimile che attenda il nuovo Governo in Israele, il  prossimo Premier Benjamin Netanyahu è adamantino nel volerle. L’Iran si avvicina alla Russia, fornisce  i droni per fiaccare la resistenza ucraina, accentua l’interscambio.

La partita è aperta. Letteralmente: agli inizi dei Mondiali in Qatar, la Nazionale di calcio non ha cantato l’inno nazionale per protesta. Alcuni atleti sono finiti male.

di Cosimo Risi

 

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