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Incoscienza e stallo socio economico (di Giuseppe Fauceglia)

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L’Italia – come scrive Sabino Cassese nel suo recentissimo lavoro “Amministrare la Nazione. La crisi della burocrazia e i suoi rimedi”, edizioni Mondadori – è un Paese prismatico, pieno di contraddizioni. Questo sabato vorrei centrare la mia breve riflessione muovendo dalla “questione meridionale” (utilizzo questa espressione nella consapevolezza di una sua perduta “significatività” o “rappresentazione semantica”) ovvero dalla accresciuta persistenza di una diseguaglianza territoriale e sociale che manifesta la “disunione” dell’Italia, nonostante che la sua unificazione statuale è risalente ad almeno un secolo e mezzo.

La riflessione che andrebbe accompagnata dalla lettura di un altro recente libro, quello di Aurelio Musi, “Mezzogiorno moderno. Dai viceregni spagnoli alla fine delle Due Sicilie”, Salerno Edizioni, 2022, fondamentale per comprendere l’origine e l’evoluzione storica di alcuni fenomeni.

Intendo elencare, sicuramente in maniera non esaustiva, le differenze che caratterizzano il Sud rispetto al resto della penisola, seguendo in parte la indicazione del prof. Cassese: il costo della politica per abitante è maggiore al Sud; le prefetture del Sud costano per abitante più che al Nord; Regioni e Comuni del Sud hanno una spesa per abitante superiore a quella del Nord; il  Sud ha perso nell’ultimo quinquennio più di 300.000 abitanti; l’abbandono scolastico nel Sud è quasi il doppio di quello del Centro-Nord; la capacità di spesa per investimenti delle amministrazioni pubbliche del Sud, misurata in termini di rapporto tra impegni e pagamenti rispetto agli stanziamenti, è di molto inferiore a quella del Nord; la lacerazione del servizio sanitario, specie dopo la pandemia, è assai più evidente nelle strutture ospedaliere del Sud; il  sistema scolastico nel Sud si caratterizza per l’assenza di anelli di congiunzione orizzontale (Regioni-Comuni-Regioni) e verticale (Stato-Regioni-Comuni), con conseguenze irrimediabili sulla completezza dei percorsi formativi e con ricadute sulle stesse capacità di apprendimento; la produzione e la distribuzione del reddito resta profondamente diseguale tra il Sud e il Nord; il  Sud contribuisce al finanziamento dell’INPS per meno di un quinto, ma usufruisce di oltre un quarto della spesa previdenziale. Si tratta di dati che vengono costantemente ignorati dalla politica, anche in occasione del recente dibattito sulla riforma del c.d. reddito di cittadinanza, posto che su 364.000 beneficiari del reddito tra i 18 e i 29 anni, 11.000 possiedono unicamente la licenza elementare o nessun titolo e altri 129.000 soltanto il titolo di licenza media (il dato è riportato da un articolo di Maurizio Ferrara, pubblicato dal “Corriere della Sera”), sì da aver indotto il Governo a prevedere (opportunamente) criteri più stringenti per i percettori tra i 18 e 29 anni, che non abbiano completato l’obbligo scolastico.

Ora, a parte l’ovvia considerazione che la povertà resta un rischio sociale che merita una solidarietà collettiva, e, dunque, l’intervento di ausilio dello Stato, va posta una seria riflessione non solo sulle politiche attive del lavoro, ma pure sul sistema scolastico e formativo nel Mezzogiorno d’Italia, specie se si pone mente alla circostanza che mancano migliaia di operai specializzati da utilizzare nei progetti del PNRR per il completare la banda larga, assolutamente necessaria per modernizzare il sistema delle reti.

In sostanza, l’elevato surplus di disoccupati con basse qualifiche impone una scelta urgente di riforma del sistema formativo. Del resto, il decreto legislativo n. 77 del 2005, aveva già indicato come l’alternanza scuola-lavoro (se correttamente attuata) è finalizzata ad assicurare ai giovani “competenze spendibili nel mercato del lavoro”.

La domanda, a parte ogni considerazione sulla necessità di assicurare adeguate tutele agli stage e ai tirocini formativi, è perché il Meridione, anche in questo settore, resta indietro rispetto al resto del Paese, e una prima, anche se non esauriente risposta, può indicarsi non solo nella arretratezza complessiva del sistema produttivo, ma pure nell’assenza di una adeguata struttura burocratica all’altezza delle esigenze.

Lo Stato e la sua amministrazione sono stati per un breve periodo una forza trainante del progresso, rendendolo possibile grazie al completamento e all’arricchimento delle infrastrutture tecniche e giuridiche (basti pensare alla positiva esperienza della Cassa per il Mezzogiorno nel suo primo decennio di vita). Con il tempo, però, si è realizzata una vera e propria frattura tra amministrazione pubblica e progresso civile e sociale, accentuata con la nascita del sistema delle Regioni, cui è collegata una crescente de-funzionalizzazione, specie in chiave clientelare, dei concorsi pubblici, con l’emergere di una burocrazia sempre più disinteressata alla funzione centrale e determinante che avrebbe dovuto assumere nello sviluppo dei territori.

Ne resta un segno evidente la gestione delle nomine apicali nella sanità pubblica, affidate a scelte a volte incomprensibili, se non nella pura logica della gestione del potere, che hanno anche di recente interessato la nostra Regione (ma la considerazione è più generale).

Si impone, pertanto, un arretramento del ruolo della politica e uno sforzo per costruire strutture amministrative davvero efficienti, che camminino sulle gambe di funzionari esperti e bravi, che non devono ogni giorno dar conto ai politici delle loro scelte. Si tratta di una sfida difficile, ma non impossibile, se si vuole davvero far “rinascere” il nostro Sud, e non trasformarlo in un deserto da cui fuggono i giovani più bravi e preparati.

Giuseppe Fauceglia

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