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Autonomia regionale differenziata e difesa dello Stato nazionale ( di G. Fauceglia)

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Sul tema dell’autonomia regionale differenziata si è alzato il solito polverone delle opposizioni, e, considerata la scarsa memoria degli italiani, pare opportuno ricordare alcune tappe del lungo processo normativo, volutamente ignorate da chi oggi denuncia la “secessione dei ricchi”.

L’autonomia differenziata è prevista e disciplinata nella Costituzione, a seguito della riforma voluta dalla maggioranza di centrosinistra nel 2000 (con soli due voti di scarto rispetto al centrodestra, che alla stessa si era opposto); è noto che proprio la modifica dell’art. 117 Cost. in ordine alla ripartizione tra competenze regionali e competenze statali ha dato luogo a decine di giudizi di costituzionalità con riferimento proprio all’esercizio dei poteri normativi delle Regioni.

In attuazione della riforma costituzionale, nel 2018, a seguito della richiesta di trasferimento dei poteri in varie materie da parte di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, il governo Gentiloni, sempre a guida PD, diede corso alla definizione di accordi preliminari tra le Regioni e lo Stato.

Non è inutile ricordare che alcuni Presidenti di Regioni, tra i quali il Presidente De Luca, manifestarono il loro consenso in favore di una normativa volta ad attribuire maggiori poteri agli enti regionali. La proposta dall’attuale Governo costituisce, dopo le incertezze degli esecutivi che si sono succeduti nel tempo, nient’altro che il completamento di un percorso che è iniziato il 2000, e che è stato il risultato delle iniziative, al tempo, assunte dallo stesso centrosinistra.

Come scrive Maurizio Ferrara sul “Corriere delle Sera”, la polarizzazione del confronto, perseguita dalle attuali opposizioni, a fini meramente elettorali, non contribuisce a realizzare in modo efficace quel regionalismo c.d. “asimmetrico”, che è stato sempre sostenuto dal centrosinistra e che risulta, del resto, conforme al processo di trasferimento di poteri che ha riguardato molti Paesi europei.

Se si guarda proprio a queste esperienze, si comprende che il tentativo perseguito è quello di raggiungere un equilibrio tra flessibilità e responsabilità di spesa delle Regioni e l’esigenza contrapposta di evitare disparità tra i cittadini in ordine alla fruizione dei servizi pubblici essenziali (specie, nella sanità). In questa prospettiva, l’esigenza pienamente avvertita dal Governo Meloni è quella di definire i servizi garantiti, denominati “livelli essenziali di prestazione” (LEP), indispensabili per salvaguardare la omogeneità territoriale (compito che lo stesso art. 117 Cost. riserva allo Stato).

In questa prospettiva, il disegno di legge Calderoni ribadisce che l’approvazione dei LEP rappresenta una condizione indispensabile per concedere l’autonomia regionale, e questa questione è stata sempre al centro del confronto politico e giuridico proprio dal 2000. E’ opportuno precisare che i livelli essenziali vanno definiti non solo con riferimento alle materie, ma soprattutto in ragione dei costi standard idonei a garantire il fabbisogno di ciascuna Regione, ciò comportando – ovviamente – un surplus aggiuntivo rispetto alle risorse di ognuna di queste (in tal senso, è previsto un fondo perequativo a sostegno proprio dei territori con minore o ridotta capacità fiscale).

E’ noto che la differenza, specie tra spese e risultati efficienti ed efficaci, costituisce per le regioni meridionali la manifestazione di una “incapacità”, che si manifesta nella deficienza di personale, di strutture e finanche di competenze (spesso soffocate da un’evidente invadenza della politica anche a fini clientelari, come sottolinea anche l’OCSE).

Purtroppo, e lo evidenzia Antonio Polito nelle pagine del “Corriere del Mezzogiorno”, su questi temi le classi dirigenti meridionali hanno da tempo assunto un atteggiamento puramente rivendicativo (difesa della quota di spesa pubblica destinata ai loro territori), rinunciando ad individuare valide soluzioni idonee a superare il livello di inefficienza nei servizi.

In una diversa prospettiva, si inseriscono le proposte che Gaetano Quagliariello ha avanzato, con argomenti che mi paiono non contestabili, tendenti all’inserimento nel disegno di legge di “una clausola di supremazia che consenta allo Stato di prevalere di fronte a crisi o a situazioni emergenziali” (prevista negli Stati a federalismo puro, come gli Stati Uniti d’America o la Germania).

A ciò dovrebbe aggiungersi una revisione delle attuali 23 materie che la riforma costituzionale del 2000 ha attribuito alla competenza regionale, attribuendo allo Stato la esclusiva competenza in materia di trasporto, infrastrutture strategiche e reti di distribuzione di energia, posto che l’evoluzione tecnologica e le emergenze di questi ultimi anni rendono davvero ridicola ed obsoleta una competenza frammentata e disorganica, come quella riconoscibile alle singole Regioni.

Questa “difesa dello Stato nazionale”, del resto, mi pare la più coerente per l’affermazione delle ragioni meridionalistiche e per realizzare quel principio di “costruzione statuale comune” che il Governo Meloni intende perseguire.

Ne discende che il clamore sollevato dalle opposizioni non solo dovrebbe essere sorretto da una più approfondita disamina tecnica delle questioni (questo, però, è il risultato di una classe politica sempre più “impreparata” e “inconsapevole”), ma soprattutto non dovrebbero essere dimenticate quelle innovazioni che lo stesso centrosinistra ha voluto introdurre nella Costituzione.

Giuseppe Fauceglia

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