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L’importanza di avere maestri (di Giuseppe Fauceglia)

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Mi chiedo se in una società più liquefatta che liquida, ormai disgregata in ogni sua articolazione, dove le false o le distorte informazioni hanno più forza persuasiva delle cognizioni e i valori sono scoloriti, conservi ancora un senso compiuto il ruolo del “maestro”.

Invero, secondo alcuni, la diffusione di un sapere (a volte apparente) globale ed orizzontale, tratto dalle nuove tecnologie capillari, avrebbe reso anonima quell’architrave del sapere e dell’esperienza trasmissibile, che è stata tradizionalmente affidata alla “lezione dei maestri” (rubo il termine da George Steiner).

La questione posta potrebbe addirittura apparire retorica, se non fosse che le nuove generazioni si agitano, quasi per infastidita reazione rispetto alle precedenti, per minare il risultato di conoscenze e di esperienze maturate nel tempo.

Resta, però, un dato di fatto che senza “maestri” finisce per venire meno quella cerniera sociale e civile, che rappresenta la fitta trama di ogni comunità. E’ opportuno premettere che i veri “maestri” non rappresentano figure semplicemente arroccate nel loro mondo chiuso, impermeabili all’esterno, insensibili ad ogni novità o sollecitazione proveniente dal vivere sociale.

Il magister, invece, dà, al cospetto degli allievi, il meglio di sé stesso, perché sente irrimediabilmente il bisogno di imparare per poter esporre e trasmettere la sua conoscenza, educare nel senso più pieno del termine, e, soprattutto, condividere. Ad esempio, ha realizzato una moderna figura di “maestro”, il filosofo Aldo Masullo, il quale ha amato ragionare e discutere con schiere eterogenee di studenti, sempre mosso dall’energia insita nel bisogno del dialogo.

Le università italiane e le scuole di ogni ordine e grado hanno conosciuto generazioni di “maestri” che hanno tratto il meglio dai loro studenti, non avendo dimenticato che la loro “lezione” non può svolgersi semplicemente “restando in cattedra”.

Il “maestro”, ma anche i suoi “discepoli”, devono essere disponibili e pronti all’esigenza di capire, di apprendere e di sperimentare, per generare un metodo, quello della sottrazione, di cui parla Aldo Trione, in cui “l’essenzialità genera più emozione del caos”, nel cui svolgersi lo studente non deve sentirsi autorizzato a sciatterie o scorciatoie intellettuali.

Non possono neppure essere dimenticati i “maestri” che della strada hanno fatto l’aula dei loro insegnamenti, senza galloni o riconoscimenti, guardando negli occhi gli interlocutori di un ambiente emarginato e marginale. Ma il “maestro” deve, innanzi tutto, esprimere autorevolezza, deve “darsi” a chi lo ascolta, deve sempre poter mettersi in discussione.

Questa può ritenersi una visione romantica e antica della funzione dell’insegnamento? Direi di no. La società, così come si va configurando, richiede, in misura ancora maggiore rispetto al passato, la presenza di “maestri”. Innanzi tutto, nelle scuole e nell’università, dove l’implodere di infernali meccanismi concorsuali hanno finito per marginalizzare il merito, e senza questo non possono esistere neppure veri “maestri”.

A ciò si è aggiunta una politica perniciosa, sicuramente non recente, che ha sottovalutato la cultura, in particolare quella umanistica (fenomeno ampiamente analizzato da Nuccio Ordine), che ha prodotto la pericolosa convinzione che il sapere sia addirittura dannoso perché in sé elitario, con la progressiva affermazione di una orizzontalità delle conoscenze (“uno vale uno”), che già tanti danni ha prodotto al nostro Paese.

Giuseppe Fauceglia 

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