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Trump twitta a Londra, il sovranismo non avanza (di Cosimo Risi)

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In missione a Londra, Donald Trump saluta l’addio politico di Theresa May senza invitarla ad un giro di danza sulla tolda del Titanic – Brexit. I media riportano  del Presidente americano le rotture del protocollo: stringere la mano e non baciarla alla Regina, accennare una pacca (prima di lui il gesto fu consumato da Michelle Obama, ma era una donna), ripetere tre volte che grande donna è la Regina, sebbene  non sempre fortunata coi Primi Ministri avendo esordito con Sir Winston Churchill per finire con May e forse Johnson.

Sono meno attenti a cogliere i messaggi che  Washington recapita a Londra. Non angosciatevi per il recesso dall’Unione, avrete un accordo gigantesco con gli USA che vi farà recuperare lo svantaggio, l’Unione è una causa persa (direbbe così, a conoscere il napoletano), altri stati membri farebbero bene a seguirvi.

Trump ha poi corretto il tiro alla commemorazione dei 75 anni dallo sbarco in Normandia: abbraccia Emmanuel Macron e ribadisce l’intangibilità del legame transatlantico. E’ il Presidente francese, assieme all’assente Angela Merkel che alla cerimonia del D – Day certo non può andare, il destinatario delle contumelie per la povera Bruxelles, responsabile di ospitare l’obsoleta NATO e la fedifraga UE.

America First da quella parte dell’Atlantico e Global Britain da questa dovrebbero essere i pivot della nuova mappa geopolitica: sotto le insegne dell’egemonia bianca e anglo-sassone con le propaggini in Canada, Australia, Nuova Zelanda.

Alla cerimonia dei 70 anni parteciparono Barack Obama e Vladimir Putin. Quest’ultimo è ora colto nel colloquio con Xi Jinping, a contrappore l’altro asse (del comunismo d’annata?) a quello anglo-sassone.

A stretto giro, la Russia annuncia di voler uscire dall’accordo nucleare con gli USA, così vanificando gli sforzi di Reagan e Gorbaciov. Riparte la corsa all’arma finale, con Iran e Nord Corea a collaborare. Il progredire del tempo non porta il progredire della distensione.

Mentre a Londra si attendono i fasti del recesso, a Strasburgo i tre gruppi maggioritari (Popolari, Socialisti e Democratici, Liberali) si coordinano circa la nomina dei vertici istituzionali. Nessun nome per non bruciare i candidati, solo un’intesa di massima per assegnare le figure apicali della Commissione, del Consiglio europeo, del Parlamento, della BCE.

Per il Consiglio europeo spunta il nome di Enrico Letta. Non è la prima volta, accadde  all’epoca del Governo Renzi, allora prevalse il polacco Donald Tusk. Parrebbe anche ora una candidatura di bandiera, volta più a mettere  Roma alle strette che a portarla avanti davvero.

Nessun italiano partecipa alle riunioni preliminari. Non c’è da stupirsi. Le tre famiglie politiche fanno riferimento a governi affini negli stati membri, i nostri partiti maggioritari non sono schierati in alcun gruppo di rilievo, sono giocoforza ai margini dei conciliaboli. La  delegazione italiana al Consiglio europeo di fine giugno sarà comunque chiamata a dire la sua, ma partendo in ritardo rispetto alle altre.

Che il cerchio europeista si stia chiudendo, lo dimostra il fatto che l’euro-scettico per eccellenza, l’ungherese Orbàn, sta riscoprendo i pregi dell’ortodossia popolare. E cioè i meriti delle politiche di coesione che hanno consentito all’Ungheria passi da gigante nella ricostruzione civile. Accade a Budapest: la critica sì, la crisi no. Il modello britannico resta senza proseliti, almeno finché Brexit non dispiegherà i benefici.

Le scaramucce bilaterali continuano fra Italia e Francia. L’ultima in ordine di tempo riguarda la fusione, subito “sfusa”, fra Renault e FCA. Il quadro politico non è propizio a Parigi, dichiara il Presidente FCA. Parigi replica che la responsabilità è di Nissan, il socio giapponese di Renault. Resta di là da venire una politica europea dell’automotive nel declino del diesel a favore dell’elettrico, puro o ibrido. Il vuoto dell’Europa è sempre una buona notizia per i concorrenti terzi.

Cosimo Risi

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