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“Ahi serva Italia, di dolore ostello”: riflessioni attuali sul canto VI del Purgatorio

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Può dirsi che oggi il Canto VI del Purgatorio non è tra quelli più noti della Divina Commedia, ma nel periodo “risorgimentale” molti furono gli scrittori, tra cui Ugo Foscolo, Francesco De Sanctis e Giosuè Carducci, che ebbero ad enfatizzare aspetti che, pur non presenti nel pensiero dantesco, finivano per riguardare l’ “idea” della “nazione italiana”, come discendenza della gloriosa Roma e della lingua ove il “sì suona”.

Il “giardin de lo’ imperio”, nell’Italia evocata da Virgilio e da Lucano, i maggiori modelli epici seguiti dal Poeta, o la “donna di provincie”, ovvero la “signora dei territori” già governati dai romani, era ormai ridotta “a bordello” , a “serva” e “schiava”, senza guida alcuna.

Come non vedere in quel contesto poetico, l’Italia di oggi, consegnata ai tanti “governatori”, che, alla luce di una scellerata riforma dell’art. 117 della Costituzione, attributiva di incerte competenze alle regioni, intendono sostituirsi allo Stato, pur nel contesto di una pandemia così grave e produttiva di effetti dirompenti sul tessuto sociale del Paese e sulla sua economia. In ciò rinvengo la stessa “tirannide”, espressione  che ora acquista ben diverso significato nelle dinamiche del capitalismo finanziario o nelle pieghe del totalitarismo sanitario delle multinazionali farmaceutiche, e che nel profetismo dantesco aveva ispirato l’invettiva del Poeta.

L’espressione retorica finisce per porre anche nel nostro presente precisi interrogativi su quali siano i fondamenti su cui una nazione moderna si regge per rispettare tutte le sue varie componenti, le tradizioni locali e le stesse varietà linguistiche o le potenzialità socio-economiche dei territori.

Così da consentire di evocare la metafora della “nave sanza nocchiere in gran tempesta” (77); anche se oggi abbiamo il nocchiere ma non l’equipaggio, arruolato dagli italiani in modo confuso e senza criterio.

Mai, come in questo momento, la matericità del “ghibellin fuggiasco”, per utilizzare la felice espressione di Ugo Foscolo, ha finito per acquisire un ruolo nella riflessione dei moderni, pur nella consapevolezza della peculiarità del pensiero di Dante, rappresentativo di molte caratteristiche, a volte retoriche, che connotano il dato compositivo e stilistico della Divina Commedia.

Con questo non intendo arruolarmi nella ciurma dell’a-storicismo populista, che trova le proprie origini proprio nella crassa ignoranza della storia (dato ormai caratterizzante la nostra società), e che sta contribuendo a paralizzare ideologicamente l’ intero Occidente.

Non può sfuggire neppure l’attualità di quel “verso di te, che fai tanto sottili/provvedimenti, ch’a mezzo novembre/non giunge quel tu d’ottobre fili” (141-144), oggi riferibile ad una normativa episodica e schizofrenica che caratterizza il nostro legislatore,  che nel volgere di pochi giorni muta norme, prescrizioni, vincolanti anziché no, e colori di diversa intensità cromatica su cui misurare il destino di uomini e di imprese.

“Quante volte, del tempo che rimebre,/legge, moneta, officio e costume/hai tu mutato, e rinnovate membre !” (144-147): sì che anche oggi la politica è simile al gioco della zara (da zahr, termine arabo per “dado”), posto non a caso all’apertura del Canto, che richiama l’azzardo che sembra caratterizzare il convulso gettar del tratto che si riscontra in molte scelte, ispirate più dal caso che dalla consapevolezza cognitiva.

Le allegorie, con la loro valenza moral-comportamentale, finiscono per sfuggire all’ intrinseco elemento poetico, per offrire, anche in questo tempo, una chiave di lettura del “moderno”. E, forse, proprio in questo risiede il grande valore della poesia.

Giuseppe Fauceglia

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