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Pandemia e burocrazia mettono in crisi la formazione e la ricerca (di G. Fauceglia)

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Il quotidiano “Le Monde”, qualche settimana fa, ha denunciato che le procedure di valutazione della ricerca in Francia hanno messo in serio pericolo il futuro stesso della ricerca,  come acutamente avvertito anche dal grido d’allarme proveniente da un nutrito gruppo di direttori di laboratori universitari e di strutture del Cnrs.

Anche in Italia ormai è stata raggiunta la consapevolezza che l’enorme perdita di tempo che si impiega per la compilazione di dossier (spesso completamente inutili) e di pratiche amministrative complesse (a volte, in sostituzione delle stesse strutture che a ciò dovrebbero, per funzioni, provvedere) finiscono per sottrarre tempo e risorse all’insegnamento e, soprattutto, alla ricerca.

Invero, il fenomeno della burocratizzazione  sta producendo effetti devastanti nel mondo universitario, pregiudicandone la stessa (un tempo ben solida) funzione formativa.

Lasciamo da parte le opinioni (un tanto malsane) di chi  ritiene che l’ Università debba solo preparare alla “professione”: negli Stati Uniti tra i migliori medici, architetti ed ingegneri vi sono italiani che hanno conseguito in Italia la laurea, la quale, diversamente dall’impostazione anglosassone che offre conoscenze “parcellizzate”, assicura una formazione di sistema e generale, che consente di ricercare quegli strumenti conoscitivi ed applicativi meglio adatti alle richieste del mercato.

A ciò si aggiungono gli effetti della pandemia, la quale ha di fatto, negli ultimi due anni, eliminato  quel contatto spaziale-temporale che storicamente caratterizza l’insegnamento e l’apprendimento universitario. Sono cessati, di colpo, i seminari, le lezioni, i convegni, i corsi di dottorato, gli incontri con i tesisti: tutto trasferito dalla presenza al rapporto a distanza, nell’empireo della indeterminatezza e della freddezza dello spazio virtuale.

A ciò si è aggiunta la diffusa convinzione che quando si può, gli esami in presenza vanno evitati. Si è, così, affermata la prassi degli esami a distanza, che altro non sono se non “la festa dell’imbroglio” (come li ha definiti Beppe Severgnini in un articolo su “Il Corriere della Sera”).

Gli esaminatori assistono, a volte impotenti, alle invenzioni dell’incollatura sui mobili dei testi o di loro sintesi, a suggeritori nascosti dietro la telecamera, ad auricolari sapientemente occultati, ad improvvise connessioni che saltano quando qualche studente non conosce la risposta o ad altri espedienti.

Allora, il docente ricorre ad altrettanti espedienti per evitare l’imbroglio,  quali domande trasversali che rendono difficile reperire la pagina del manuale in cui può rinvenirsi la risposta, l’utilizzo del LockDown Browser, che impedisce di aprire altre pagine o finestre sul computer di casa, o impone lo sguardo fisso sulla telecamera.

Per non parlare delle altre gravi difficoltà, come l’accesso vietato o limitato alle biblioteche, che impediscono, dato importante specie nella ricerca umanistica o giuridica, lo “sfoglio” delle annate delle riviste o la individuazione di volumi (magari, a volte, risalenti nel tempo).

Occorre, invece, restituire,  “dignità” alla formazione universitaria, valorizzandone il tratto della ricerca e dell’insegnamento, proprio nell’interesse delle future generazioni. Ed è  questo il messaggio che ci è venuto anche dal Presidente Mattarella, quando ha menzionato nel suo recente discorso al Parlamento la centralità della “cultura” e della “formazione”, come tratti determinanti per la crescita del Paese.

Giuseppe Fauceglia

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