The End (di Cosimo Risi)

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Alexei Navalny muore nella prigione oltre il Circolo Polare Artico. La causa della morte cambia di giorno in giorno, nelle dichiarazioni dei responsabili che, per prudenza o per malizia, ne trattengono il corpo “per accertamenti”.

Che possa non esserci il nesso eziologico, per dirla con i giuristi, fra la responsabilità e l’esito, è verosimile. Che il decesso “naturale” sia preterintenzionale è un’ipotesi. E’ parimenti ipotizzabile che l’invito dall’alto  a trattarlo con rigore sia stato applicato dai custodi con eccessivo zelo.

Il trasferimento del prigioniero, carico di una quantità inverosimile di condanne, in un carcere di massima durezza era il preludio della fine. Qualcuno ha citato il titolo di Gabriel Garcia Marquez: cronaca di una morte annunciata.

Il martirio di Navalny, che lo stesso ha cercato nella speranza di scuotere le coscienze, stronca le velleità degli oppositori di competere con il partito al potere nelle prossime elezioni. L’esito è scontato, resta il dubbio circa la misura della vittoria del Presidente uscente e rientrante. Il dissenso è ammesso, con le cautele del caso. L’opposizione che assurge a sfida proprio no.  Non è un buon segno per i cittadini che anelano alla libertà e neppure per il regime stesso. Il regime si blinda quando avverte la minaccia imminente e prova a stroncarla, costi quel che costi.

Ed allora: a chi giova? Giova al potere che si mostra allergico alle critiche in maniera plateale. Ma fino ad un certo punto. Rimette in discussione le aperture, che pure s’intravedono qua e là nel fronte occidentale, ad un qualche accomodamento con la Russia per porre termine alla guerra in Ucraina. Vuoi per la stanchezza della guerra, vuoi per l’andamento sul campo che non volge a favore della resistenza.

Mette in dubbio la narrazione pre-elettorale di Donald Trump. Il probabile candidato repubblicano ha annunciato che nel secondo giorno alla Casa Bianca, ai primi di gennaio 2025, avrebbe affrontato e risolto il caso Russia. Valendosi, si presume, dell’antico cordiale rapporto con il Cremlino e del senso per gli affari che vuole imprimere alla conduzione degli affari esteri.

Lo stesso approccio egli lo predica per il Medio Oriente. Inutile attardarsi sulla formula dei due stati, si diffonda la ricchezza ed i Palestinesi soddisfatti rinuncerebbero alle rivendicazioni territoriali.

Un’intesa con partner così difficili, da una parte un leader autoritario, dall’altra un’organizzazione animata da pulsioni religiose, è facile da enunciare dalla Florida, ardua da realizzare sul piano negoziale.

Le difficoltà di Trump non è detto che avvantaggino Joe Biden. Il Presidente può vantare il “ve l’avevo detto” riguardo alla Russia, a cospetto della Camera che non vota gli aiuti all’Ucraina. L’Ucraina divenuta, suo malgrado, il bastione della civiltà occidentale avverso il dispotismo orientale.

Biden si estenua in telefonate con Benjamin Netanyahu per convincerlo alla linea americana di appeasement con il mondo arabo. Il riconoscimento ad Israele di esistere nella regione in cambio del riconoscimento da parte di Israele dello Stato di Palestina.

La risposta di Netanyahu è  spiazzante: non ci piegheremo al ricatto internazionale di fare un regalo ai Palestinesi in questo momento; chi vuole fermare la campagna di Rafah, a sud di Gaza, vuole  farci rinunciare alla vittoria.

Gli Americani non sono menzionati esplicitamente, ma il messaggio è diretto anzitutto a loro. Li costringe a piegarsi al rifiuto dell’alleato prediletto, verso cui non possono agitare l’argomento fatale: vi lesiniamo l’aiuto militare. Il Premier israeliano sta giocando in anticipo la carta Trump. E’ convinto che, con l’amico repubblicano al potere, conserverà egli stesso il potere, a dispetto degli avversari e dei processi.

Le crisi in Europa orientale e in Medio Oriente si stanno avvitando pericolosamente. Chiamano in gioco l’azione occidentale: la nostra capacità di dosare forza e diplomazia. L’esercizio è delicatissimo.

di Cosimo Risi

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