Joe fra Donald, Bibi, Vladimir (di Cosimo Risi)

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Fra i dirigenti mondiali è d’uso chiamarsi per nome, a mostrare confidenza e, quando occorre, disappunto. Negli Stati Uniti, Joe (il Presidente Biden) rilascia una intervista choc alla CNN riguardo al difficile rapporto con Bibi, al secolo Benjamin Netanyahu. Nel proscenio, pronto a entrare sul palco da protagonista, Donald the Duck, al secolo Donald Trump.

Il trio sarebbe simpatico se non giocasse a dadi, non con l’universo come nel paradosso di Albert (Einstein), ma con la vita delle persone. Nel loro caso è la vita politica a contare. Joe freme per la rielezione e dosa gli atteggiamenti in funzione delle simpatie dell’elettorato. Bibi vuole continuare la campagna di Gaza, finché dura non sarà chiamato a rispondere delle manchevolezze nella sicurezza.

L’elettorato di origine araba del Michigan volta le spalle al Presidente perché troppo filoisraeliano, minaccia di volgersi alla sinistra democratica. Verso l’ennesimo Kennedy? Ed allora Joe litiga al telefono con Bibi, responsabile di resistere alle pressioni perché receda dall’assalto a Rafah. E già il fatto di resistere a Joe mostra la tempra di Bibi: non è da tutti dire no all’amico americano.

L’elettorato filoisraeliano resiste alle manifestazioni filoarabe nelle Università, rimprovera il Presidente di privare Israele della vittoria finale. Eppure, Joe promette sostegno inossidabile allo Stato ebraico.

Bibi ha bisogno dell’appoggio americano, la portaerei Eisenhower davanti alla costa è stata una protezione più efficace dello Iron Dome contro i malintenzionati, in Iran e fra le milizie filoiraniane in Libano. Ma non può lasciare inalterata la struttura di Hamas. Gli ultimi miliziani sono asserragliati assieme ad un milione di persone a Rafah, l’ultimo ridotto della resistenza dopo che la Striscia è stata messa a ferro e fuoco alla ricerca di Yahia Sinwar, il responsabile dei fatti di ottobre.

Donald agisce nell’ombra con dichiarazioni di fuoco avverso l’Amministrazione, riecheggia il post del Ministro israeliano della Sicurezza Nazionale. Itamar Ben Gvir icasticamente scrive su X: “Hamas loves Joe”.

Joe, infatti, ha deciso di sospendere, non cancellare, la fornitura di bombe pesanti a Israele, avendo notato che molti civili sono stati in precedenza colpiti da bombe simili. Il Congresso veglia affinché gli ordigni siano adoperati a scopo difensivo, nell’illusione che fra difesa e offesa si possa tracciare un solco in una zona sovraffollata di persone e armamenti.

Il Segretario di Stato è convocato dal Congresso per riferire di eventuali violazioni a Gaza del diritto internazionale e del diritto americano. Blinken posticipa l’audizione per completare la procedura di accertamento. Pare che il rapporto parli di eccessi e poco più nell’operazione militare, così da sbloccare la fornitura delle armi.

A guadagnare è il quarto incomodo, quello contro il quale Joe, Bibi e Donald dovrebbero essere schierati ed invece ne fanno involontariamente il gioco. Il quarto è il nuovo vecchio Presidente Vladimir (Putin). Nella fastosa cerimonia dell’insediamento al Cremlino, mentre fuori cade la tardiva neve di maggio, Mosca non patisce il riscaldamento globale, Putin inneggia alla vittoria sull’Ucraina, minaccia l’Occidente di fargliela pagare per la politica aggressiva nei confronti di Russia e Bielorussia, gongola silenziosamente per il perdurare della crisi mediorientale.

La crisi è tale da riverberarsi sul suolo americano e condizionare gli orientamenti dell’elettorato. Da destra e da sinistra piovono critiche su Biden. I sondaggi premiano la tattica dell’attesa. Trump continua a macinare consensi, li cerca anche presso l’elettorato ebraico tradizionalmente schierato con i Democratici. Annuncia che, il giorno dopo l’insediamento alla Casa Bianca, risolverà d’un colpo le crisi mediorientale e ucraina. In che modo, staremo a vedere nel gennaio 2025.

Ad essere turbato è il Principe saudita. Mohammed bin Salman ha deciso di allacciare le relazioni diplomatiche con Israele. Pone la condizione che qualcosa di positivo accada a favore dei Palestinesi. Se non la immediata creazione dello Stato di Palestina, almeno la fine delle ostilità. Solo così il Regno potrà difendersi dall’accusa di trescare con i Sionisti.

L’Assemblea NU vota per l’ammissione della Palestina a pieno titolo, ora ha il rango di osservatore. La raccomandazione al Consiglio di Sicurezza, il solo organo a decidere dello status, non avrà seguito per il veto americano. E’ il segno dei tempi, come lo è la decisione di alcuni stati membri UE di riconoscere lo Stato di Palestina. Un crescendo di gesti simbolici volto a sostenere la soluzione due popoli – due stati.

Nell’anno delle presidenziali, le relazioni internazionali sono appese ai mutevoli umori di quella minoritaria parte dell’elettorato americano che, a novembre, andrà a votare. Un paradosso degno di Albert: la minoranza del popolo americano decide per la totalità della comunità euro-occidentale.

di Cosimo Risi

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