Il Nobel per la pace al femminile (di Cosimo Risi)

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Ad un anno dal fenomeno Me-Too il bilancio è singolare.

Uno scambio di accuse e  repliche fino alla controaccusa dell’accusato verso l’accusatrice. Si veda il caso di Asia Argento. Il quadro è chiaro nella sua confusione. Aggrappiamoci all’eterna Catherine Deneuve che sparge parole di saggezza nel frullatore delle testimonianze ora per allora. Non sappiamo se Brett Kavanaugh sia un giurista così fine da meritare il laticlavio della Corte Suprema americana.

Sappiamo in compenso che da giovane, un’era fa, si sarebbe ubriacato ed in stato confusionale avrebbe avvicinato una compagna in maniera brusca e forse violenta.  Tutto quanto si produce in America ha risonanza mondiale, viviamo le loro vicende come se fossero di casa nostra: con la stessa stolida partecipazione di chi assiste ad un rito che non capisce perché quel che conta è la messa in scena.

I giurati del Nobel ristabiliscono l’equilibrio con decisioni impeccabili probabilmente nel merito e certamente nell’immagine. Le donne non sono soltanto l’altra metà del cielo, sono parte rilevante del mondo scientifico al pari dei colleghi uomini coi quali condividono il merito di scoperte decisive in fisica e chimica.

Tranne alcuni divi della scienza come Albert Einstein e il nostro Enrico Fermi, i nomi dei Nobel scientifici cadono presto nel pubblico dimenticatoio per essere rievocati solo negli ambiti di rispettiva spettanza.  Restano impressi i nomi dei Nobel per la pace.

La commissione di Oslo assegna il riconoscimento 2018  a due personaggi di quello che una volta si sarebbe chiamato Terzo Mondo e che oggi irrompe nel nostro mondo con l’eloquenza di argomenti universali. Denis Mukwege e Nadia Murad appartengono a popoli ingiustamente periferici rispetto ai grandi eventi. L’uno e l’altra diventano esemplari per il loro comportamento profondamente umanitario. Difendono la dignità di noi tutti.

Denis Mukwege cura in Congo le vittime degli stupri. Opera in un paese che non conosce la pace da decenni. Le donne sono le vittime predilette di certe forme di violenza bellica, che disconosce qualsiasi codice cavalleresco per accanirsi sulle persone più esposte.

Le donne soffrono della violenza fisica subita,  le terapie a volte la curano, mentre l’abiezione morale resiste a qualsiasi rimedio che non sia la distanza. O il clamore, come quello inscenato da Nadia Murad.

Nadia Murad venne agli onori della cronaca, ed al disonore dei persecutori, quando fu rapita dal DAESH – ISIS e trasformata in schiava sessuale. Il riposo per nulla glorioso del guerriero aveva bisogno di chi quel riposo allietasse. La donna yazida non era una persona, era un oggetto semovente che si poteva prelevare dalla sua dimora e portare al seguito delle milizie. Le milizie, tutte composte da combattenti pii e timorati, ne potevano abusare a piacimento, essendo lei appunto una yazida.

Nadia non si è acconciata al silenzio della vergogna. Ha dichiarato la vergogna degli assalitori. Si è fatta testimone di una sofferenza, ad evitare che episodi del genere si ripetano. Nadia non avrà probabilmente conforto nel pensare che le guerre sono sporche anche per questo e che altre ci saranno dopo la sua. Ma almeno avrà avvertito l’umanità dell’ennesimo orrore col coraggio di chi resiste.

Cosimo Risi

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