Affari esteri e affari interni a New York (di Cosimo Risi)

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L’Assemblea Generale di settembre è l’appuntamento topico dell’agenda ONU e del multilateralismo in generale.  Della diplomazia multilaterale si dice un gran bene nelle lezioni accademiche e un relativo male sui media. La critica colpisce la sua inefficacia rispetto alle crisi del mondo. I conflitti che avrebbe dovuto scongiurare continuano in sordina e sotto la forma di “frozen conflicts”.

Dalle colonne di un quotidiano Giampiero Massolo, che di diplomazia e intelligence s’intende, richiama l’esigenza che l’Italia rispetti il quadro euro – atlantico ma tenga da conto una strategia nazionale da svolgere sul piano bilaterale. Tutti i paesi terzi sono potenziali partner, non tutti sono alleati, alcuni possono perseguire finalità diverse dalle nostre.

L’esempio si attaglia al rapporto con l’Iran, se ne è avuta plastica evidenza a New York. I leader europei, compreso l’euroscettico Boris Johnson, si sono messi in fila per la “photo opportunity” con Hassan Rouhani, come gli appassionati di cinema appena spunta la diva sul tappeto rosso di Venezia. Donald Trump, l’altro divo in arrivo, ha invece evitato l’incontro con l’iraniano preferendo duellare dialetticamente a distanza.

Il divario fra Stati Uniti e Europa si misura sui rispettivi atteggiamenti riguardo all’Iran. Washington ha denunciato nel 2018 l’accordo sul nucleare concluso nel 2015 con la determinante mediazione UE. Gli europei rispettano l’accordo, anche se questo atteggiamento espone  le loro aziende alle sanzioni americane extra-territoriali. Eppure Rouhani lamenta che gli europei non fanno abbastanza per salvaguardare l’accordo: esorta l’Unione a spingere gli americani a rivedere la loro posizione.

Rouhani alterna i toni fieri ai propositi accomodanti. Si dichiara pronto a rinegoziare alcune clausole dell’accordo, non l’impianto, se prima cadono le sanzioni che stanno mettendo a dura prova l’economia nazionale. Teheran non sarà la prima a lanciare un attacco militare, ma è pronta a rintuzzare qualsiasi aggressione esterna.

L’Arabia Saudita smentisce l’innocenza iraniana, accumula indizi sulle responsabilità  nell’attacco alla raffineria ARAMCO. Lo ritiene una prova di forza delle milizie filo-iraniane di stanza nella zona sciita dell’Iraq per evidenziare la fragilità del sistema di protezione dei siti nel Golfo.

La minaccia è  percepita da Israele come volta in subordine ai propri siti. Si pensi soltanto all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, il solo scalo veramente internazionale. Il sistema anti- missilistico già in opera risulterebbe non del tutto idoneo a rintuzzare certe minacce dall’aria, un nuovo apparato a base laser verrebbe messo in opera con la collaborazione americana. Per Israele e per l’Arabia Saudita, l’Iran è una minaccia alla  sicurezza e alla stabilità, direttamente o tramite i gruppi affiliati in Libano, Iraq, Siria. Da anni in Siria, accanto alla guerra civile fra le fazioni, si combatte una guerra strisciante fra Israele e i gruppi filo-iraniani che si assembrano al confine.

La prudenza con cui Trump tratta il dossier è commendevole. Alla vigilia dell’anno elettorale è consapevole che un conflitto ne diminuirebbe le prospettive di vittoria. L’economia tira, gli avversari democratici sono in cerca della candidatura giusta da opporgli, l’opinione pubblica sarebbe disorientata da una crisi internazionale proprio ora che il Pentagono pensa di ridurre il contingente in Afghanistan.

Nella serie di incontri al Palazzo di Vetro, rimbalzano a Roma  le dichiarazioni della delegazione italiana sul taglio dei parlamentari. La nostra priorità è il preteso risparmio di 500 milioni di euro e non l’effetto di eventi potenzialmente catastrofici in un’area a noi prossima.

di Cosimo Risi

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