Imprenditività e Università un modello ancora lontano (di P. Persico)

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La difficoltà di cucire un vestito-sistema al territorio salernitano – inteso come vestito di riferimento capace di valutare e riorganizzare un sistema di sviluppo complesso ed aperto – appare, nonostante le mille difficoltà, un’operazione da tentare e attuare.

La messa a punto del contesto di riferimento, la specificazione del modello organizzativo, la ricerca dei valori e dei fattori caratterizzanti l’organizzazione che verrà sono temi affascinanti e meritano una riflessione alla luce dell’ipotesi base di reinventare la didattica e la ricerca da fare nell’Università. L’ipotesi forte, ben chiara e sentita, riguarda la necessità di uscire dal modello burocratico esistente e inventare un nuovo modello – l’Università imprenditiva –  in termini di potenziale di sviluppo.

Non è poco, perché il potenziale apre l’ipotesi di raggiungere gradi di accontability da fare interpretare alle strutture esistenti che a loro volta si incamminano verso nuovi parametri di efficacia, efficienza, e funzionalità; si creano nuovi percorsi di responsabilità che ridefinisce il potenziale possibile.

Lo sforzo teorico, in questo senso, non riguarda soltanto il perché sia necessario ripensare all’Università come organizzazione complessa da ristrutturare e posizionare, ma ha la pretesa di considerare problemi estesi ad altri settori anch’essi necessariamente protesi a cambiare il modello gestionale di riferimento. Ma proprio per il settore della ricerca e dell’Università si evidenzia che l’aver forzato i “limiti” teorici dell’applicazione dei caratteri di azienda ad una struttura territoriale in evoluzione complessa, pone il problema del dopo, in termini teorici. L’università, infatti, per sua natura opera anche in spazi di non mercato, con organizzazioni a-specifiche, per le quali è difficile determinare anche i costi irrecuperabili.

E’ evidente che attraverso la creazione di una mentalità imprenditiva  e l’uso abbondante delle nuove tecnologie si possono mobilitare risorse potenziali per accumularli in cluster di conoscenza, ma il tema principale rimane: su quali infrastrutture istituzionali poggiare la responsabilità del cambiamento? Bastano incentivi identitari ed incentivi selettivi per riaggregare le imprenditorialità latenti nel mondo della ricerca? Quali sono i sistemi di valutazione a cui si vuol fare riferimento?

Questa ultima è la domanda portante.

Una volta deciso il contesto delle reti a cui si fa riferimento, il valore dell’accountability è definito, l’ipotesi di imprenditorialità deve partire da lì. Nello stesso tempo la capacità di responsabilizzare le diverse componenti finisce per essere la chiave per ripartire nuovamente. Il modello burocratico non è ancora cambiato, anzi è peggiorato, ma può diventare  più flessibile, cioè più consapevole della necessità di arrivare ad un nuovo modello.

L’accountability deriva dal potenziale che l’Università mostra in termini di produzione di capabilities legate al capitale umano formato, capabilities che oggi richiedono anche dosi di competenze specifiche, di ricerca di base e di ricerca applicata senza trascurare quelle gestionali relativi a progetti. La voglia di poter avere voce nel confronto relativo alle capabilities prodotte e alle competenze mostra che il cambiamento è possibile.

“L’ assunzione dell’onere della prova deve ricadere su coloro che fanno parte dell’organizzazione”, sapendo che il tempo nuovo è arrivato e che la globalizzazione ha rivoluzionato i luoghi della produzione delle capabilities e delle competenze; il continuo cambiamento delle reti di produzione di conoscenza finisce per dare all’accountability una significato liquido nel senso che il contenitore (Università) diventa riconoscibile non per storie passate ma per capacità di mostrarsi contemporaneo nella produzione di storie future.

La difficoltà di produrre competenze accanto alle capabilities mostra tutta l’attuale fase critica dell’Università e sintetizzano le finalità esplicitate del modello proposto (la di formazione culturale delle classi dirigenti, la formazione di elevate professionalità, l’ampliamento delle frontiere del sapere, l’impulso alla crescita del sistema economico, la riproduzione delle nuove capabilities didattiche e scientifiche accanto alle competenze accumulate; Le due parole, capabilities e competenze, mettono in crisi i tradizionali modelli di gestione di risorse umane ( il modello burocratico più volte richiamato nel testo) perché il loro uso esplicita il concetto che capabilities e competenze hanno  carattere temporaneo ed hanno bisogno di essere valutate sempre nel processo di cambiamento.

Ecco perché un modello di New Management aperto chiede spazio con urgenza, perché esso è in grado di aggiungere valore riposizionando risorse in una visione dinamica e ricorsiva. Le risorse umane esprimono sempre nuove capabilities e potenzialmente nuove competenze, dipende dalle reti in cui esse sono attive.

Il progetto “Efficienti perché pubblici” dell’Università di Ferrara, pubblicato dall’editore Carocci,  segnala lo sforzo di qualche Università pubblica di inseguire valori del modello imprenditoriale, cioè uno  sforzo di mappatura dei processi e la tensione verso nuovi parametri di efficienza maturati  nel nuovo clima competitivo necessario per stare nelle reti globali di produzione di saperi. Il tema competività delle nazioni è anche legato al gap occupazionale dei cosidetti Knowledge Workers.

I Knowledge Workers emergono come gruppi occupazionali con alti livelli di istruzione ed educazione in rete continua come le centrali di produzione della conoscenza.

Non tutte le Università fanno parte di questa rete, occorre perciò porsi la domanda fondamentale: l’Università è potenzialmente in grado di far parte di questa rete di produzione di conoscenze e che ruolo svolge?

L’implicazione  di tutto ciò è che l’Università dovrà trasformarsi  da produttore  di conoscenza generale e formatore di qualifiche elevate per partners in una rete complessa che spinge oltre i confini pedagogici e scientifici tipici dei suoi tradizionali ruoli.

Saranno necessari grandi cambiamenti nella cultura, gestione e struttura dell’attuale istituzione. L’Università di Salerno nel fare il grande passo verso il consolidamento delle strutture e delle presenze, ha forse trascurato il ruolo dei Dipartimenti come chiave necessaria per le parnership di cui si è parlato. Deve pertanto recuperare, favorendo una ripartenza dei temi che tengono in coerenza contenuti e contenitori del nuovo profilo necessario.

Il Dipartimento deve possedere la titolarità piena della destinazione delle risorse destinate alla ricerca e alla formazione di competenze di eccellenza, a partire dai Dottorati a valenza multipla, ma anche le altre risorse per le borse di ricerca e per i ricercatori devono essere gestite con più autonomia, tenendo presente anche le esigenze didattiche ma invertendo l’attuale visione di preminenza della didattica.

La struttura amministrativa e gestionale deve essere rivisitata. Le nuove autonomie conquistate dai grandi Dipartimenti dovrebbero garantire una maggior trasparenza nello sviluppo della cosiddetta terza missione, con uno sguardo all’area vasta, i cui confini dipendono dall’area di ricerca di riferimento.

di Pasquale Persico

1 Commento

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  • Tutte belle parole, ma i fatti sono tutt’altro: gente assunta per convenienza, parenti, amici, moltissimi incapaci di fare ricerca e vera didattica. Attualmente vedo solo uno sperpero di risorse e vedo gente con grandissime potenzialità muoversi al di fuori dell’università.

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