Libia: la Conferenza di Berlino segna la svolta? (di Cosimo Risi)

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La geopolitica torna in auge nella prassi diplomatica. La Conferenza di Berlino del 19 gennaio 2020 rinnova i fasti di un’epoca andata, quando i delegati delle Potenze si riunivano in una città europea, di preferenza Parigi o Vienna, per decidere delle sorti del mondo.

La differenza del XXI secolo rispetto al XIX è che le Potenze non sono soltanto le europee ma quelle comunque interessate al caso: gli stakeholders, per dirla con linguaggio alla moda.

Sono numerosi. Tutti i paesi limitrofi, a cominciare da Egitto a Est e Algeria a Ovest che hanno, specie il primo, più di un “droit de regard”. Alcuni stati membri dell’Unione oltre che l’Unione in quanto tale tramite il suo Alto Rappresentante. La Russia e la Turchia. Gli Stati Uniti stanno in posizione defilata, gli europei vorrebbero chiamarli in prima linea per essere aiutati laddove non possono o non vogliono. Washington ha però altre priorità: Iran, Iraq, Cina. La scena del Mediterraneo meridionale è lasciata alla determinazione degli europei, è il ridotto di casa, se la sbrighino loro una volta tanto.

Ci sono naturalmente i due contendenti: il Primo Ministro Serraj, a capo delle milizie che ne difendono la postazione a Tripoli; il Generale Haftar che, con il suo Esercito Nazionale Libico, dalla Cirenaica muove verso la Tripolitania. La posta in gioco è la possibile unità del paese, di fatto diviso nelle due grandi regioni e in due zone d’influenza. Al centro della contesa il dominio sulle fonti degli idrocarburi e sulla gestione dei proventi delle esportazioni.

I grandi registi dell’operazione sono due potenze non strettamente dell’area: Russia e Turchia. Mosca s’infila nei vuoti lasciati da Washington. L’ha fatto con successo in Siria, dove il suo intervento ha salvato Bashar Al-Assad e preservato la base navale sul Mediterraneo. Ritenta in Libia con l’appoggio a Haftar con forniture di armi e mercenari.

La strategia della Russia nel Mediterraneo è stata definita “tanto per esserci”. Non avrebbe interessi fondamentali da salvaguardare se non la naturale attenzione verso un paese petrolifero. Ricaverebbe il generico beneficio di mostrarsi centrale nelle aree calde con un impegno al risparmio: ottenere molto in termini di immagine cedendo poco sul campo. Ciò che importa è qualificarsi come partner  affidabile alla distanza.

La Turchia si muove con maggiore spavalderia. Da quando il Parlamento ha autorizzato l’invio di truppe al fianco di Serraj, le sole straniere dopo che il Premier aveva invano invocato le europee, Ankara si muove da protagonista, con il manifesto intento di monetizzare quanto dato.

L’accordo con Tripoli per lo sfruttamento di giacimenti nella zona economica esclusiva, in uno spazio però conteso da Cipro, è la carta di ritorno. Nell’interesse economico più che nella retorica riedizione dell’Impero Ottomano va cercato il motivo conduttore della sua presenza in Libia.

Haftar oppone che la Turchia sostiene le milizie islamiste, vagamente ispirate alla Fratellanza musulmana. Conta perciò sugli Emirati Arabi Uniti e sull’Egitto che, con la presidenza di Al- Sisi, ha eletto i Fratelli Musulmani a nemici capitali del regime.

L’Unione batte un colpo. Dopo aver assistito inane ai passaggi precedenti e ignorato le richieste di aiuto di Serraj, che pure riconosceva come legittimo governante di Libia, i principali stati membri s’impegnano diplomaticamente, e presto militarmente, seguendo una linea che si vorrebbe alfine comune.

Non più rivalità fra Parigi e Roma ma convergenza di posizioni sotto l’egida di Berlino, la sola capitale in grado di dialogare con tutte le parti e accreditata di un rapporto particolare con Mosca. Non è mai troppo tardi per occuparsi degli interessi essenziali.

di Cosimo Risi

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