Lotta alla variante Delta: perché il «modello cinese» non è esportabile

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Trenta giorni: tanto sarebbe bastato alla Cina per ridurre a zero i nuovi casi di infezione da variante Delta di Sars-Cov-2. Secondo i dati della National Health Commission cinese (l’equivalente del nostro ministero della Salute), riportati sia da China Daily sia dalla Cnn, per la prima volta da luglio nella Repubblica Popolare non si registrano nuovi casi di Covid-19 trasmessi localmente. Merito del nuovo, rigoroso, lockdown imposto dalle autorità.

Un tipo di approccio seguito all’inizio della pandemia anche in altri Stati – come Singapore, Australia e Nuova Zelanda – , che tuttavia stanno rivedendo le lor politiche alla luce delle nuove varianti. «Un tipo di approccio difficilmente applicabile in Italia e nei Paesi occidentali in generale» spiega però Paolo Bonanni epidemiologo e professore ordinario di Igiene all’Università di Firenze.

Approccio «zero Covid»

Dunque la Cina ha percorso la strada del rigore assoluto. Il Paese è alle prese con la diffusione della variante altamente contagiosa Delta dal 20 luglio, quando è stato rilevato un gruppo di infezioni da Covid-19 tra il personale addetto alle pulizie degli aeroporti nella città di Nanchino. Da allora, si è trasformata nella peggiore epidemia dal 2020, diffondendosi in più della metà delle 31 province del paese e infettando più di 1.200 persone. L’epidemia ha raggiunto anche a Wuhan, la città della Cina centrale dove il coronavirus è stato rilevato per la prima volta nel dicembre 2019.

Gli altri Paesi che lo hanno adottato ci stanno ripensando

Come riferisce la Cnn, i casi in aumento causati dalla variante Delta sono stati visti come la più grande sfida per l’intransigente politica di tolleranza zero della Cina. Le autorità locali hanno risposto ponendo decine di milioni di residenti sotto stretto isolamento, lanciando massicce campagne di test e tracciamento e limitando i viaggi nazionali. Altre nazioni hanno seguito o anticipato l’approccio cinese, tra cui Singapore, Australia e Nuova Zelanda.

Le autorità hanno chiuso le frontiere a quasi tutti gli stranieri, imposto rigorose quarantene per gli arrivi e avviato blocchi mirati e politiche aggressive di test e tracciamento per eliminare tutti i casi che sono sfuggiti alle difese. E per più di un anno, queste misure hanno avuto un grande successo nel mantenere i casi vicini allo zero. Ma i nuovi focolai guidati dalla variante Delta stanno spingendo alcuni di questi Paesi a ripensare il loro approccio.

Arma a doppio taglio

Dunque la strada del lockdown sembrerebbe un’arma a doppio taglio. «Ovviamente nessuno di noi forse è in grado di capire le differenze nelle modalità di applicazione di queste misure estreme nei diversi Paesi. Sospetto che in Cina l’intensità del lockdown e le misure che vengono prese siano particolarmente severe e poco discutibili dalla popolazione. Quindi mi sembra che sia un modello poco facilmente esportabile in Paesi occidentali. Loro sono abbastanza drastici e impongono degli obblighi che probabilmente da noi sarebbero inaccettabili», dice Bonanni.

Imparare a convivere con il virus

Secondo l’epidemiologo, un conto è voler ridurre i casi di infezione a zero; altra cosa invece è cercare di imparare a convivere con il virus. La Cina ha anche continuato a intensificare la sua campagna di vaccinazione. Secondo l’Nhc, sono state somministrate più di 1,94 miliardi di dosi di vaccini contro il Covid-19 prodotti a livello nazionale. Si tratta di più di 135 dosi ogni 100 persone, un rapporto superiore a quello del Regno Unito e degli Stati Uniti.

Eppure, la variante Delta ha avuto vita relativamente facile. «I risultati dei vaccini cinesi in termini di efficacia non sono altrettanto buoni, mediamente, rispetto ai vaccini sviluppati nel mondo occidentale. Quindi probabilmente c’è anche da considerare questo aspetto nella decisione delle autorità cinesi di ricorrere a un nuovo lockdown», riflette Bonanni.

Riduzione del danno, prima

C’è poi una questione cruciale: come reagirebbero gli italiani – e gli altri Paesi europei – ad una nuova «chiusura»? In Australia, la popolazione è scesa in piazza per protestare contro le restrizioni. «Quindi il nostro approccio non può essere diverso da quello che stiamo seguendo — aggiunge l’esperto— : ridurre al minimo i danni fatti dal Covid-19 in una prima fase, e questo lo otteniamo se abbiamo una copertura vaccinale alta soprattutto nelle fasce a maggiore rischio di conseguenze.

E qui viene fuori la questione del famoso 12-13% di popolazione oltre i 50anni che ancora dubita e non accetta la vaccinazione. Questo è oggettivamente il problema più grosso che abbiamo in questo momento, per quanto riguarda la riduzione del danno». «L’atteggiamento di chi rifiuta i vaccini è assolutamente irragionevole oltre che irrazionale. Bisogna far comprendere che la vaccinazione è un atto di responsabilità innanzitutto verso se stessi e poi verso la comunità intera. Se si arriverà a un obbligo sarà proprio perché nella vaccinazione c’è un aspetto sociale che non si può negare in questo momento».

Aumentare la copertura della fascia di popolazione giovane

Per quanto riguarda invece la riduzione della circolazione del virus, alla convivenza con il virus dovrebbe fare seguito una sua «normalizzazione». Dovrebbe cioè diventare un’infezione stagionale come l’influenza. Come? «Per ottenere questo risultato bisogna allora anche aumentare la copertura nelle fasce di popolazione giovane, perché l’età media delle persone contagiate si sta sempre più abbassando», risponde Bonanni.

Riapertura delle scuole, il «momento della verità»

Il primo banco di prova, tra poche settimane, sarà la riapertura delle scuole. Da come si sta muovendo la curva epidemica, che cosa possiamo dedurre? «Quando ci saranno nuovi contatti più stretti, e la riapertura delle scuole sarà in questo senso il momento più critico , c ertamente ci sarà una possibilità di maggiore ripartenza del virus. Ma il problema vero è ancora quanto questo incremento dei contagi si tramuterà in un aumento importante di ricoveri nelle terapie intensive e dei decessi.

Quello che abbiamo visto nelle ultime settimane, e anche in base all’esperienza dell’Inghilterra, ci dice che tutto sommato si può cominciare a pensare di convivere con l’infezione e quindi con un aumento dei contagi ma che comunque non si trasforma come accaduto lo scorso inverno, in un incremento altrettanto elevato dei casi gravi e dei casi mortali. Tutto questo dipende, fondamentalmente dalle coperture vaccinali.

Per questo anche la vaccinazione dei ragazzi è qualcosa su cui stiamo puntando molto perché se vogliamo mettere in sicurezza la popolazione e soprattutto non avere danni dobbiamo vaccinare anche la popolazione degli studenti. Via via l’età in cui i vaccini si potranno utilizzare diminuirà e man mano dovremo utilizzarli in misura sempre maggiore anche nelle fasce più giovani».

Fonte: Corriere.it

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