La saga mediorientale fra diritto e politica (di Cosimo Risi)

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La morte del Presidente iraniano è ufficialmente attribuita a cause tecniche e al meteo avverso. L’elicottero vetusto e inidoneo ai voli in quota, la tempesta, la nebbia, la scorta che forse c’era e forse no. I primi sospettati di un guasto provocato hanno subito messo le mani avanti: noi non c’entriamo. E’ pur vero che il silenzio è nella tradizione dei Servizi israeliani: non confermare né smentire.

Gli stessi Servizi sono ancora scossi dalla disattenzione di ottobre 2023, la sottovalutazione del pericolo che veniva dalla Striscia. Non è la prima volta che accade. Nel 1973, lo Stato ebraico era così orgoglioso della vittoria nella Guerra dei Sei Giorni (1967) che sottovalutò i segnali provenienti dall’Egitto. Cairo non sarebbe stato capace di una nuova offensiva. Ed invece…

Se dunque la morte di Ebrahim Raisi è classificata come incidente, non ci sarà la reazione iraniana, stavolta non “telefonata” come l’incursione dei droni su Israele, ma formidabile e forse finale. Con la possibilità per Gerusalemme di adoperare l’arsenale nucleare in estrema autodifesa.

Israele subisce due indagini dalle Corti Internazionali. La Corte Internazionale di Giustizia per l’accusa di genocidio formulata dal Sudafrica. La Corte Penale Internazionale per crimini di guerra, mettendo insieme come possibili imputati, da una parte, Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant e, dall’altra, Yahia Sinwar e due dirigenti di Hamas.

La Corte Internazionale di Giustizia intima a Israele di recedere dalla programmata invasione di Rafah e di consentire il flusso degli aiuti umanitari agli abitanti di Gaza. A Hamas intima di rilasciare gli ostaggi ancora vivi senza condizioni. Né una parte né l’altra mostrano di adeguarsi alla Corte. Si genera un groviglio fra il diritto internazionale umanitario, quale evocato dai Giudici dell’Aja, e la ragione politico-militare di Israele (e Stati Uniti che ne appoggiano le ragioni) difficile da dipanare.

L’insistere sulla pista giudiziaria per sciogliere un nodo di altra natura non fa che dubitare della rappresentatività di certi organismi internazionali. Il multilateralismo che fa generalmente capo all’ONU continua a manifestare i suoi limiti.

La comparazione fra il Governo di Gerusalemme e i dirigenti di Hamas è motivo di scandalo sia in Israele che in Palestina. Il fronte politico israeliano si ricompatta per una volta attorno a Netanyahu e Gallant. Imputa alla Corte di semplificare i fatti al punto da ignorare che c’è un aggressore e un aggredito, che c’è stato un attacco proditorio a civili inermi e vige il diritto dello Stato a difendersi. Persino Benny Gantz, che di Netanyahu si pone come oppositore e candidato alla successione, si schiera al fianco del Primo Ministro. Difendere Bibi significa difendere la capacità dello Stato di rispondere alle minacce  anche in maniera vigorosa. L’alternativa è rassegnarsi alla distruzione dello Stato.

I Palestinesi replicano in maniera simmetrica. Sono loro gli aggrediti di sempre e le vittime delle stragi perpetrate dalle IDF nella Striscia. Nelle parole del Procuratore della Corte essi trovano il fondamento giuridico delle loro lamentazioni: l’inedia usata come arma di dissuasione e di costrizione della popolazione civile, la strage degli innocenti.

Gli Stati Uniti continuano a tessere la tela degli Accordi di Abramo. Lasciano trapelare l’indiscrezione che l’intesa con l’Arabia Saudita sarebbe pronta ad essere finalizzata. Nel pacchetto è il reciproco riconoscimento fra il Regno e Israele. A condizione che Israele fermi l’attacco a Rafah e, in prospettiva, lavori alla soluzione dei due stati. Gli Stati Uniti darebbero così all’Arabia Saudita lo scudo della sicurezza simile a quello accordato ai loro alleati più stretti.

Israele accetterà le condizioni poste dall’Arabia Saudita e confortate dagli Stati Uniti? E’ la domanda chiave cui Netanyahu  è chiamato a rispondere. Il Premier punta a tirarla per le lunghe. Sia per l’intima convinzione che Hamas e soci vadano neutralizzati subito o mai più, sia per salvare la coalizione di destra-destra che lo sostiene al suo diciassettesimo anno di presidenza.

Alcuni paesi europei (Irlanda, Norvegia, Spagna) decidono di riconoscere lo Stato di Palestina come misura simbolica a favore della pacificazione regionale. In seno all’Unione europea una nutrita minoranza di stati membri è dello stesso avviso di Irlanda e Spagna, altri sono in posizione di attesa, fra loro Francia, Germania, Italia. La Francia per riservarsi la parola definitiva, la Germania per la ritrosia a compiere un passo sgradito a Israele, l’Italia per schivare un delicato dibattito interno mentre riaffiora l’antisemitismo camuffato da antisionismo.

di Cosimo Risi

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