Economia: Perché il capitalismo ha vinto, vince e vincerà anche nel prossimo futuro

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angelo_giubileo_foto“Non meraviglia, perché è un dato costante nella Storia, che questa nuova classe scopra che le istituzioni tradizionali sono un ostacolo al suo sviluppo, e che dunque ritenga che esse debbano essere o distrutte o ignorate. E’ ciò che avvenne quando la città si affermò come luogo di nuove opportunità economiche per mercanti e artigiani nel bel mezzo della società feudale” (R. Dahrendorf)
E’ già accaduto. Perché la storia degli uomini si ripete sempre uguale, salvo che un nuovo processo evolutivo doti la specie stessa o un’altra, che genericamente potremmo pensarla post-umana, ma anche semplicemente una specie del tutto diversa da quella ritenuta umana, di maggiori possibilità (téchne, dal greco classico).
La cosa, però, a cui voglio qui riferirmi è esattamente quanto avviene da circa un quarto di secolo con il processo di globalizzazione ancora in atto. Avvalendosi comunemente della capillare diffusione dell’information technology, nuove forze economiche e sociali s’impongono e sovrastano le istituzioni tradizionali, che, come spesso nel passato, vanamente, tentano di contrapporsi.
Le istituzioni tradizionali sono ancora oggi quelle dello Stato moderno, nazionalistico, fondato sul diritto delle leggi che regolano una comunità ristretta in un territorio delimitato da confini geo-politici. In tempi moderni, e limitatamente alla storia ombelicale che è stata quella europea per due millenni circa, i rapporti tra gli Stati sono stati regolati dal Trattato di Westfalia del 1648 e poi, invece, attraverso continue guerre, di cui due addirittura “mondiali”, si è giunti all’attualità. Rappresentata da un mondo “primo” che comprende “tre imperi” (USA, CINA e UE) ed il tentativo di crescita economica di un “secondo” e “terzo” mondo (Parag Khanna) rappresentato da Stati o nazioni che, attraverso la globalizzazione, inseguono un proprio sviluppo competitivo.
La prospettiva, finora per tanti, diventa quella davvero di un “nuovo mondo”, anzi dell’intero mondo che può essere sperimentato e vissuto, viaggiando o acquisendo informazioni attraverso un semplice apparecchio come il telefonino o altri adeguati supporti. Il processo, innanzitutto finanziario, imposto dalla globalizzazione consente quindi di varcare ogni confine tradizionale o politico-nazionalistico, e rappresenta, senz’altro, una maggiore possibilità.

Come appunto si diceva. Già agli inizi del secolo corrente, Ralph Dahrendorf sosteneva, a proposito della formazione di una nuova “classe sociale” (nel senso marxista del termine): “Non meraviglia, perché è un dato costante nella Storia, che questa nuova classe scopra che le istituzioni tradizionali sono un ostacolo al suo sviluppo, e che dunque ritenga che esse debbano essere o distrutte o ignorate. E’ ciò che avvenne quando la città si affermò come luogo di nuove opportunità economiche per mercanti e artigiani nel bel mezzo della società feudale”.
La qual cosa equivale a dire che: è l’economia che muove il mondo, e non piuttosto la politica. Né giammai il diritto, che è sempre una concessione da parte del “principe” (nel senso machiavellico del termine) di uno status formale e/o sostanziale.
E dei nuovi rischi e pericoli, cosa diremo?

In effetti, quelli non mancano mai. Anzi, fanno parte del cosiddetto “pacchetto” inerente alla nuova proposta. Il processo di globalizzazione comporta innanzitutto lo sviluppo della competizione, nel cui ambito ogni “attore” (individuo o società) è chiamato ad esercitare, in maniera più determinante, un ruolo e una funzione. Nella graduatoria dei valori, sale il concetto di meritocrazia e scende quello dell’assistenzialismo.
Che occorra stabilire “un ordine mondiale veramente globale” (H. Kissinger, Ordine mondiale), intendendo con l’espressione un ordine “politico”, sono molti ad auspicarlo. E tuttavia, oggi questo appare prematuro. Più che della politica, questo è ancora il tempo dell’economia. In attesa che, com’è sempre storicamente accaduto, sopraggiunga la politica.

E’ quindi il tempo, di pace e non più di guerre mondiali(!), in cui vale ancora il giudizio inappellabile di Adam Smith. “… in una qualsiasi nazione, l’abbondanza o la scarsità della sua provvista annuale dipende necessariamente dalla proporzione tra il numero di coloro che sono annualmente occupati in un lavoro utile e quello di coloro che non lo sono”.

E tuttavia ancora, nel mondo globale accade anche che: la finanza internazionale interviene a stravolgere gli assetti (assets) definiti da Adam Smith, la trappola del debito rappresenta una costante del sistema geopolitico o globale, ogni singola e ripetuta crisi finanziaria può essere causa di fallimenti (default) anche d’intere nazioni. Questo è già accaduto, ma in qualche modo comunque se n’esce e se n’è usciti.
E pertanto, la domanda è se esista un rimedio perché ciò non accada. Ed il rimedio esiste e, in fondo, appartiene alla teoria “classica”; si tratta del rimedio inscritto nella teoria della cosiddetta “simmetria informativa”.

Il ché non è poco, ma può anche non apparire molto, in un mondo invaso d’informazioni.
In ordine alla teoria, ecco un esempio, che vale soprattutto per l’Europa: il sistema keynesiano, che ha retto la seconda metà del secolo scorso, pur sembrando economicamente simmetrico nel suo funzionamento, si è poi rivelato politicamente asimmetrico (J. K. Galbraith). Quest’asimmetria ha determinato l’insorgenza di un nuovo e grosso problema per gli Stati nazionali, quale quello appunto del debito pubblico.

Quanto al presente, guardando al più recente sistema finanziario internazionale, e all’esperienza derivata da numerose crisi prodottesi dal 1970 (shock oil) al 2007 (mutui subprime), è interessante notare che la prospettiva e il rimedio appena indicati comunque non cambiano: per evitare una crisi, occorrerebbe “la possibilità di raccogliere ed elaborare tutte le informazioni del caso” (J. E. Stiglitz 2008).
Che poi, a tutto ciò, sia necessario un “governo”, è cosa che non è assolutamente da discutere. E’, di per sé, un fatto certo.
Angelo Giubileo

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