Fisco: senza gravi indizi non si può entrare a casa contribuenti

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Il giustizialismo fiscale in Italia non è consentito. Non si può mandare lettere anonime contro qualcuno e pensare che l’autorità giudiziaria intervenga. Che quelle siano considerate prove per violare un abitazione. Se i riscontri delle eventuali violazioni fiscali sono custodite a casa di colui che è accusato.

Servono gravi indizi di “evasione” per poter entrare nel domicilio di un cittadino italiano, quando si indaga per violazione di norme tributarie. Lo ha deciso con l’ordinanza 20.096 del 2018 la Quinta sezione della suprema Corte di Cassazione.

Tutto nasce a Trento e per farvi capire cosa significhi un procedimento del genere basti dire che gli anni d’imposta ai quali si riferisce l’indagine sono il 1996 e il 1997.

La Guardia di Finanza, previa autorizzazione del pubblico ministero presso il Tribunale di Trento, eseguiva una verifica fiscale nei confronti di un esercente che svolgeva un’attività di ristorante, bar e pizzeria.

Ma la Gdf, nel locale destinato ad abitazione privata dell’esercente, rinveniva una contabilità parallela, relativa all’esercizio commerciale. La contabilità parallela permetteva, a detta della Gdf, di ricostruire la reale situazione contabile e finanziaria della società. Sulla scorta di questa documentazione extracontabile l’Agenzia delle Entrate emetteva degli avvisi di accertamento e di rettifica ai fini del recupero della tassazione per maggiori introiti ai fini Iva, Irpef ed Ilor per gli anni d’imposta 1996 e 1997.

Ma l’autorizzazione, emessa dal procuratore della Repubblica, era esclusivamente fondata su informazioni anonime. Per tanto l’esercente si opponeva sostenendo che la procura non aveva indicato, come vuole la legge, i gravi indizi di violazione delle norme tributarie che vengono richiesti per l’accesso domiciliare.

La commissione tributaria di primo grado ha rigettato i ricorsi dell’esercente, così come una sentenza di rigetto è stata emessa in appello. L’esercente ha però presentato ricorso in Cassazione che ha annullato gli accertamenti confermando quanto deciso da una sentenza del 2002, la numero 16.424, che autorizza l’accesso al domicilio solo se vi sono gravi indizi di evasione. Le denunce e le informazioni anonime, che siano scritte o verbali, non sono prove.

“Occorre un minimo d’indagine e di riscontro, per acquisire la cognizione di fatti, sia pure dotati di semplice valore indiziario”, scrivono i giudici. Quindi in queste condizioni l’ufficiale di polizia che si appresta a cercare prove in un domicilio lo farebbe di atti a lui totalmente “sconosciuti”.

“L’indizio non è prova, nemmeno presuntiva”, scrive la Cassazione, “in quanto si esaurisce nella cognizione di un accadimento diverso da quello da dimostrare, in sé non sufficiente per desumere il verificarsi di tale fatto da dimostrare secondo parametri di rilevante probabilità logica”. Casomai poi di prove si trovano su altro, intanto fai l’accesso a casa del soggetto.

Così facendo i giudici confermano l’inviolabilità del domicilio. Anche l’autorizzazione del magistrato non è un semplice nulla osta ma deve basarsi su presupposti molto concreti (come stabilisce la cfr. Cass. n. 26829 del 18/12/2014).

Per tanto un comportamento del genere, cioè “l’assenza del presupposto”, invalida gli atti. I giudici hanno per tanto accolto i motivi del ricorso del contribuente, cassando i provvedimenti che aveva ricevuto contro.

Fonte AffariItaliani.it

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